«Voglio arrivare dritta al punto: entro un massimo di 10 giorni morirò. Dopo anni di continue lotte, è finita. (…) Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. È tanto tempo che non sono davvero viva. Sopravvivo, e nemmeno quello. Respiro, ma non vivo più». Sono queste le ultime, agghiaccianti parole affidate ai social network da Noa Pothoven, la ragazzina olandese di 17 anni che nei giorni scorsi si è lasciata morire, smettendo di mangiare e bere. Il calvario di Noa, che più volte aveva tentato di porre fine alla sua giovane esistenza, inizia tra gli undici e i quattordici anni, quando tre violenze sessuali le tolgono la spensieratezza, l’allegria e la gioia di vivere proprie dei giovani della sua età. Da quel momento i suoi sogni si trasformano in incubi: i giochi, la scuola, le uscite con gli amici lasciano il posto all’anoressia, alla depressione e all’autolesionismo. La vita diventa un “fine pena mai”: una condanna all’ergastolo troppo pesante da sopportare. La triste storia di Noa accende un riflettore su uno dei più grandi drammi del nostro tempo: il suicidio giovanile. Secondo l’Istat in Italia sono quasi 500 i ragazzi tra i 15 e i 25 anni che ogni anno si tolgono la vita, Sono, invece, tra i 1000 e i 1500 quelli che vengono salvati in extremis. (Tra questi, però, rileva l’Oms, il 40% fa un secondo tentativo.
Una tendenza che è aumentata negli ultimi 40 anni, anche se il nostro è tra i Paesi europei con il tasso di mortalità giovanile per suicidio più basso). Resta il fatto che da noi, come in Europa, il suicidio è la seconda causa di morte tra i più giovani, dopo gli incidenti stradali). Un adolescente arriva a compiere questo gesto estremo per un brutto voto, una delusione d’amore, un rimprovero dei genitori, le derisioni e gli scherzi subiti dai compagni di scuola, il tormento nei confronti di un fisico che non si riesce ad accettare. Ma anche per sfida, per gioco. Proprio così, per gioco: negli ultimi anni si sono diffusi nella rete, quel mondo virtuale spesso senza regole che i nostri ragazzi vivono come un momento di socialità reale, una serie di giochi che incitavano all’autolesionismo e al suicidio, come Blue Whale e Blackout Challenge. Che fare? Non è questa la sede opportuna per offrire soluzioni a un problema tanto complesso e delicato. Di certo, un ruolo fondamentale lo rivestono la scuola e le famiglie. La scuola deve uscire dalla sua dimensione professorale per ergersi al rango di Comunità educante, dove gli insegnanti, con la partecipazione attiva dei genitori, diventano educatori capaci di generare la fiducia e scatenare la motivazione, la curiosità e l’affettività dei ragazzi, contagiando le loro menti con la meraviglia della conoscenza, della voglia di sapere e del futuro. Soltanto così potranno formarsi veri “Campioni”. “Campioni” non nel senso di «atleti che riescono a collezionare medaglie, premi e vittorie», ma di uomini in grado di «vivere la propria vita con passione e con pienezza», come ha spiegato Papa Francesco nei mesi scorsi, intervenendo proprio sul tema dei suicidi giovanili.