Sono cresciuta all’ombra del campanile nella parrocchia di Villa Fastiggi a Pesaro. Una parrocchia francescana che tra le tante cose mi ha insegnato ad apprezzare la bellezza del creato e delle cose semplici tanto amate da San Francesco. Sono rimasta attiva in parrocchia fino a quando, a 19 anni, ho fatto un piacevole incontro con la comunità “Papa Giovanni XXIII” di don Oreste Benzi, durante un campo scuola estivo. Quell’incontro ha cambiato la mia vita, mi sono innamorata di una vocazione che mette gli ultimi al centro e che ti fa sentire parte di un’unica famiglia spirituale.
Ho iniziato a frequentare alcuni incontri e feste organizzate dalla comunità e ho iniziato a partecipare alla messa nella parrocchia di don Oreste Benzi, una messa dove c’era posto per tutti, dove la diversità non spaventava ma arricchiva.
Matrimonio. In quella comunità ho incontrato anche Andrea, che poi nel 2008 è diventato mio marito. Un uomo che aveva vissuto la sua giovinezza nelle zone di guerre come operatore di pace, e con il quale non è stato difficile capire che il Signore ci chiamava in terra di missione. Ci siamo sposati e abbiamo offerto alla “Papa Giovanni XXIII” la nostra disponibilità ad andare dove c’era più bisogno. Come preferenza indicammo la Tanzania, dove io già avevo trascorso un anno di servizio civile. Ma poiché la comunità del Kenya in quel periodo viveva una fase di fatica, ci chiesero di andare lì per dare una mano, e noi accettammo. Eravamo sposati da soli 6 mesi e ci trovammo catapultati in una realtà davvero complicata e di estrema povertà e disperazione. Nella mia semplice idea di missione mi ero sempre immaginata mamma seduta in una grande tavolata che dava da mangiare a bimbi bisognosi. Beh, è stato molto più complicato di questo. Abbiamo vissuto in una baraccopoli, in un luogo dimenticato, dove le persone non vivono ma sopravvivono. L’unico lavoro che trovi da queste parti è quello di lavare i panni al tuo vicino e con quei 2 euro al giorno (neanche sempre garantiti) devi sfamare I tuoi figli, pagare l’affitto della baracca, la scuola, le cure mediche, la camera mortuaria e il funerale di quel figlio che, troppo debole, non è sopravvissuto, mentre l’uomo che ti ha messo incinta per la quarta volta se ne è andato di nuovo, ma tu lo sapevi già, perché la storia si ripete.
Ingiustizie. La cosa che più mi spaventava allora, quando ero una giovane donne alle prime armi, e che mi spaventa ancora oggi dopo quasi 11 anni di Kenya è l’ingiustizia istituzionale arricchita da una spudorata corruzione, davanti alla quali ti senti inerme. La polizia si può permettere di entrare in baraccopoli per chiudere uno degli innumerevoli bar illegali che producono la chang’a (distillato locale fatto con il miglio) e quando le persone si ribellano, sparare a caso e uccidere un bimbo di 2 anni. Le guardie di quartiere notturne possono irrompere nella base dei ragazzi di strada, prendere a manganellate tutti, anche i neonati in braccio alle ragazzine e porre fine alle loro piccole vite. Nessuno reclama giustizia per queste persone considerate solo rifiuti della società. I bambini di strada solo a Nairobi sono circa 60 mila, 300mila in tutto il Kenya.
Qui scopri che alcune donne prendono in affitto i bambini dalle famiglie povere per andare ad elemosinare per strada, e quando le smascheri e le porti alla polizia questa non fa nulla perché scopri che la donna ha già pagato una tangente. E tu in lacrime provi a spiegare all’agente che quel bambino non è suo, che non vuole tornare in strada con quella sconosciuta ma lui, probabilmente padre di famiglia, ha più potere delle tue inutili lacrime.
Figli. Quante altre storie potrei raccontare dove i più deboli sono sempre le vittime, dove il cattivo è un governo che pensa solo ad arricchire le proprie tasche. Il cattivo è l’avidità, la sete di soldi facili che la tangente soddisfa, il cattivo è l’incapacità di ribellarsi per paura di essere uccisi, il cattivo è la disperazione di un uomo che va ad ubriacarsi perché non riesce a provvedere al pane per i propri figli e, ubriaco, torna a casa e picchia la moglie davanti a loro. E allora come si fa ad essere missionari in questa terra così ostile? Che cosa porto io, partita da Pesaro piena di sogni, a questo popolo? Semplicemente me stessa, la mia debole capacità di essere voce di chi non ha voce. Non annuncio il Vangelo con le parole, perché non ne sono capace, ma cerco di viverlo nella quotidianità perché alla fine è quello che lascia il segno. La mia semplice idea di missione che avevo alla fine si è realizzata, io e Andrea siamo una famiglia con i nostri sei figli kenyani. La mia lunga tavola oggi è ricca di vita che questi figli con le loro storie, le loro croci e le ingiustizie subite nella loro giovane età portano ogni giorno. Non potrei immaginare una vita senza di loro, e sono contenta che grazie a quel sì incosciente detto undici anni fa loro oggi possono sognare in grande. Come possiamo essere missionari a casa nostra?
Missionarietà. Non pensiamo che i missionari siano solo coloro che lasciano la propria terra, non siamo tutti chiamati a partire per terre lontane, ma credo che come cristiani siamo tutti chiamati ad essere missionari, lì dove siamo. Ognuno di noi può essere voce di chi non ha voce, ognuno può difendere chi è oppresso, ognuno può fare la differenza nella vita dell’altro. Se da sempre la definizione di missionario è colui che porta Cristo a chi non lo conosce, io credo che oggi essere missionari è praticare la giustizia che Cristo ci ha insegnato là dove giustizia non c’è.
FEDERICA FEDERICI