L’effetto Brasile è tutt’altro che sfumato. Le parole del Papa non sono ancora scivolate nel cassetto della memoria. Anzi la Gmg è un’esperienza più lucida che mai, sdoganando l’estate da una stagione dormitorio e cloroformizzata per restituirla ad una funzione più operosa e provocatoria ed immettendoci su un autunno caldo per le mille scadenze politico-burocratiche. C’è sempre il rischio di fronte al miraggio delle ferie di sfruttare le oasi di passaggio come spazi di relax eccessivo e di abbandono estremo, ma ci sono invece impatti con la realtà che impongono uno sguardo vigile, una presenza forte. Così è stato. La Giornata mondiale della Gioventù ci ha riconsegnato l’immagine di un Paese del Sudamerica, modello economico da sesta potenza mondiale in termini di Pil nominale e settima per potere d’acquisto, caleidoscopio di razze e culture multiple, ma anche appesantita da sacche di povertà ingenti e di bisogni non sempre recepiti. E la presenza di Papa Francesco, di fronte alle adunate oceaniche di Copacabana, al rumoroso spettacolo dei giovani di Rio, oltre ad aiutare a cogliere la straordinaria bellezza di un paese costellato da contraddizioni continue, ha come invitato a valorizzare il termine libertà come capacità di aderire alla proposta di Cristo, l’unica in grado di rispondere al bisogno di felicità.
Ma non con le analisi, le tavole rotonde, le capriole psicologiche. Con i fatti, l’allenamento quotidiano, la fedeltà ad un cammino. Non è stato facile percepire che la prima e fondamentale cosa che questo principiare di pontificato vuole dire a tutti è che la Chiesa non è una delle organizzazioni benefiche del pianeta. La Chiesa è una vita. Un modo di essere uomini. Eppure lo si poteva capire di schianto vedendo Papa Francesco parlare ai giovani argentini, mentre diceva basta all’”eutanasia culturale” e si era come scusato di fronte a vescovi e cardinali per l’irruenza delle sue parole. Ovvero “voglio che si esca fuori, che la Chiesa esca per le strade, voglio che ci difendiamo da tutto ciò che è mondanità, immobilismo, comodità, clericalismo. Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori, se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong”.
Fuori, per strada. Proprio quella che abbiamo visto a margine della Gmg, visitando a S. Paolo l’altro Sermig di Torino, dove si ospitano ogni giorno ben 1.250 indigenti della metropoli per un vitto ed un alloggio, in attesa di un’occupazione. Una grande casa per poveri dove mettersi in gioco ed imparare ad amare la propria persona. Dove prestare servizio in cucina a preparare i kit del pasto da distribuire ai senza tetto nella piazza principale di S. Paolo o scaricare suppellettili ed altro materiale donati da qualche istituzione per questo Arsenale della Speranza. Oppure in mezzo alla favela di Guaianazes per abbracciare l’attesa della gente che chiede solo di regalare briciole di solidarietà e di bene, il cui codice non va ricercato dal ceto sociale o dallo stato di benessere. Ma ha la sua password nel cuore. Chi possiede meno, è più in grado di dare agli altri, offrendo a te, gradito ospite italiano, il letto principale dell’abitazione per lasciare il materasso a terra al padrone di casa. Visitando le realtà più difficili di questa periferia, a contatto con scuole e realtà educative e di recupero, si percepisce una sorta di venerazione per tutto ciò che è italiano. L’Italia è un punto di riferimento, è un esempio, è una possibilità di riscatto. Eppure da noi si coglie un’altra aria. Ma in quell’immenso Paese che fa… continente a sé con quasi 200 milioni di abitanti e con una superficie che è 28 volte la nostra penisola, tutto ciò che è tricolore è come venerato. Grazie ad una storia, ad un rapporto, ad un cammino comune, intessuto di sostegni e di legami capace di mettere a servizio non solo fondi, ma anche risorse umane. Da qui uno slancio di generosità quasi commovente. Ed è un’accoglienza che va sostenuta ed accompagnata da un’amicizia concreta, risolutiva, non in stile assistenzialistico, ma più matura per non rendere afono l’appello del Papa di uscire dal proprio guscio. Francesco insiste su questo impeto che lo ha contraddistinto fin dal primo saluto al popolo di Roma. L’uomo è tutto qui: “Sono un grande peccatore, confidando nella misericordia e nella pazienza di Dio, nella sofferenza, accetto”. Franz Konig, uno dei grandi principi della Chiesa, sapeva già dall’epoca del Vaticano II che “al posto dei re e dei principi adesso sono i giornalisti ad influenzare i Concili”. Oggi che questa influenza è diventata così pervasiva che risulta difficile distinguere la realtà dal magheggio, mentre il rumore sulla spiaggia di Rio sparisce, ecco rimanere questo impeto, questa direzione tumultuosa di una vita che manda all’aria gli schemi benpensanti e pulitini del nostro mondo.
Una roba da vita spericolata per dirla con Vasco che il Papa preferisce di gran lunga alle assonanti ed omologate dissertazioni dell’informazione. Si passa dalla “Woodstock per conquistare il gregge perduto” di “Repubblica”, al “riconoscimento degli indignatos” da parte del Papa firmato “El Pais”. O ancora “la visita papale ha gettato una cruda luce sull’incompetenza di politici ad organizzare in modo trasparente Mondiali di calcio ed Olimpiadi” su “Le Monde”, e continuare sul Papa pellegrino che esorta la gioventù a lottare contro la corruzione su “Der Spiegel” e “New York Times”. Tanta dietrologia, quasi una ricerca chirurgica e maliziosa nell’individuare il granello della polemica, il dettaglio dell’inutile, in un trasporto mediatico troppo facile da galoppare. Piattume demagogico a mille, sostanza zero. Ma il Brasile, Rio, la Gmg sono un’altra cosa da quella che ci hanno voluto raccontare. Ed è questa che dobbiamo conservare e testimoniare. Fatta di racconti e di sguardi. Di immagini e di persone cambiate.
Carlo Camoranesi Delegato Marche – Federazione Italiana Settimanali Cattolici