Stanno diventando retoriche le frasi famose che si elevano nel corridoio dei ‘passi perduti’ di Montecitorio. ‘Moriremo Dc’ non sarà l’ultima. Nasce nell’alveo più sensibile e meno clericale della sinistra italiana quali La Repubblica di De Benedetti, LA7 con Gad Lerner, Il Fatto quotidiano dell’ineffabile Travaglio. Tremano e hanno veramente paura di morire Dc o fanno semplicemente scongiuri? Il riferimento alle radici culturali e allo stile del premier Letta è più che evidente. Egli risponde elegantemente con la felice intuizione di portare in ritiro tutti i componenti del Consiglio dei Ministri in una abbazia della Toscana mentre a Roma continua la guerra trasversale tra le varie correnti del Pd e del Pdl.
Giorgio Napolitano, a dispetto delle sue origini, per ragioni di equilibrio di carattere internazionale e per la consapevolezza che il ricorso anticipato alle urne determinerebbe incalcolabili danni alle istituzioni e alla economia del Paese, difende , a spada tratta, il suo governo unico possibile. Oltre il dibattito sui temi che scottano, (Imu, lavoro, Disco verde, nuova legge elettorale….) incombe un momento di crisi rovinoso e senza scampo.
Spunta anche la figura di Giulio Andreotti, recentemente scomparso, all’orizzonte di ‘moriremo Dc’ dalla quale Dc più che morire, imparare. Brevemente, per nomi e periodi, ne indichiamo il cammino tutt’altro che malato. De Gasperi e la ricostruzione, Fanfani e l’apertura a sinistra, Moro e il compromesso storico con il Pci. È vero. Andreotti non ha determinato le grandi svolte (scelta occidentale, Unione Europea…) ma ha offerto la sua capacità di gestire la politica nel quotidiano. Si può dire che egli abbia tessuto la trama della Prima Repubblica. Quarant’anni della nostra storia. Nel caso Moro sostenne la linea della fermezza. Oggi quasi tutti gli storici gli riconoscono il merito della sconfitta irreversibile delle Brigate Rosse. Forse la parte più fragile e controversa è costituita dalla sua corrente siciliana “in odore di mafia”. È il Presidente Napolitano che afferma “sarà la storia a delineare il quadro, anche perché sulla vicenda non mancano opinioni diverse tra altissimi esperti della magistratura”. Di fatto nel processo di Palermo non ci fu né assoluzione né condanna ma prescrizione. Tuttavia l’opinione pubblica, inopinatamente, lo condanna. Ma ora torniamo a Enrico Letta.
Dopo il ritiro nella Abbazia di Spineto, descrive il programma dei primi cento giorni in dieci punti: stop ai comizi dei ministri, prima il decreto Imu poi, subito dopo, piano lavoro. Urge far camminare la politica sulle coordinate dell’emergenza economica e delle riforme istituzionali. “Qui vinciamo o perdiamo insieme”.
C’è chi commenta che in due settimane non si cancellano venti anni. Anche questo commento rivela un’inconscia nostalgia della Prima Repubblica e di chi sappia tenere, con pazienza e sapienza politica, i fili della “ricostruzione”.
Raffaele Mazzoli