I missionari della nostra Arcidiocesi hanno incarnato e reso visibile l’identità di una “chiesa in uscita”, fuori dagli schemi, per annunciare Cristo ed il Vangelo a tutti.
All’inizio di questo nuovo anno ricorre il centenario della nascita di padre Elvio Gostoli. Originario di Furlo di Acqualagna dove è nato nel 1924, è stato uno dei tanti missionari che la nostra Arcidiocesi di Urbino-Urbania-Sant’Angelo in Vado ha avuto nel secolo scorso. Spesso papa Francesco ci ha parlato e continua ad insistere sulla necessità di una “Chiesa in uscita”, ovvero porsi in un’ottica che vada oltre gli schemi tradizionali, sapendo discernere ciò che è valido da quello che chiede di essere riformulato. Così pure il nostro Arcivescovo, fin dal suo arrivo, ha più volte sottolineato la necessità che i parroci, i diaconi, i religiosi, le religiose e tutti i battezzati diventino sempre più una “Chiesa in uscita”, per annunciare il Vangelo ai fedeli là dove vivono, operano o studiano.
Padre Gostoli ha reso concreta e visibile la “chiesa in uscita”, incarnando l’identità di una Chiesa missionaria. Egli ha donato la sua vita a Dio in un servizio attento e disponibile agli altri, a partire dagli ultimi e dai più bisognosi. Subito dopo l’ordinazione sacerdotale dell’11 giugno 1949 nella chiesa del Pelingo, viene incaricato dell’animazione missionaria e vocazionale ed inviato in varie case comboniane: Trento, Pesaro, Rebbio e Sulmona. E’ doveroso fare memoria di questo, come di tanti altri missionari, per non dimenticarli, oltre che per mostrare riconoscenza nei confronti di queste persone che “si sono consumati” per il popolo di Dio. Le molte opere che padre Gostoli ha fatto, insieme ad altri confratelli, testimoniano la laboriosità di questi operai di Dio.
Missione. La sua prima esperienza di missionario comboniano risale al 1955, nel Sud Sudan dove rimase 9 anni, fino a quando, insieme a tanti altri missionari cattolici, venne espulso. Nel 1965 svolse il suo primo servizio nel nord Uganda, portando aiuto inizialmente nella diocesi di Gulu, ai profughi sudanesi che si trovavano in mezzo al bosco senza riparo, né cibo, né acqua, né cure mediche. L’anno successivo fu mandato in Karamoja, nella diocesi di Moroto, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 6 ottobre 2011. Qui operò in vari territori di questa grande diocesi: Nabilatuk, Lorengedwat, Namalu, Naoi e infine Moroto. Ogni volta doveva ricominciare da capo per conoscere la gente del luogo, per trovare catechisti, per iniziare l’insegnamento, per organizzare nuovi gruppi di preghiera, nonché man mano che la partecipazione cresceva, doveva occuparsi della costruzione di nuove strutture: la casa dei missionari, quella delle suore, un locale come pronto soccorso, una scuola di cucito e il dormitorio per ragazzi e ragazze. Pertanto all’impegno di grande educatore di fede, ha aggiunto anche tanto lavoro manuale: «Avevo compreso che non si poteva fare solo evangelizzazione e catechesi, ma che era necessaria anche la promozione umana e l’impegno ad affrontare e risolvere le necessità quotidiane».
Karamoja. E’ una sub regione dell’Uganda del Nord. Comprende 5 distretti: Kaabong, Kotido, Abim, Nakapiripirit e Moroto capoluogo del Karamoja e sede vescovile. E’ la regione più povera dell’Uganda e prende il nome dell’etnia che la popola, i Karimogong, pastori, guerrieri, nomadi, storicamente sempre in conflitto con le etnie confinanti sia in Uganda stessa che nel Sudan del Sud e nel Kenya, a causa delle razzie del bestiame. Si tratta di una savana tropicale con clima arido e quindi povero di acqua.