L’Armenia è terra antica, di dolorosa e sconosciuta bellezza. È la bellezza del sacro che ritrovi nella natura, nella biblica solennità incombente dell’Ararat, o in secolari architetture dalle forme asciutte e scarne di solitari monasteri. È il dolore di un popolo fiero, dominato ma non domo, che nel non rinnegare se stesso ha pagato un prezzo altissimo alla saldezza della sua identità, testimone di una sofferenza sacrificale mai ostentata quanto custodita e tramandata. Del Genocidio che a cavallo tra il 1915 e il 1917 costò la vita a un milione e mezzo di armeni poco ancora si sa. Equilibri geopolitici ed economici con la Turchia di Erdogan lo confinano ancora in un limbo storico e l’Italia è tra i pochi Paesi che al momento lo hanno ufficialmente riconosciuto.Gli armeni lo chiamano il Grande Male e sulla sommità della Fortezza delle Rondini oggi c’è il mausoleo dell’olocausto con il suo museo, i suoi simboli e la sua fiamma eterna.
Cristianesimo. Il gruppo di Terrae Novae – organizzazione che tramite Marina Venturini si è specializzata in viaggi che coniugano spiritualità, cultura e tradizione – accompagnato da don Marco Di Giorgio come guida spirituale per un’esperienza di conoscenza e pellegrinaggio, è arrivato a Yerevan, la capitale, alla vigilia del 24 aprile che per gli Armeni è giornata nazionale di commemorazione. Il genocidio è stato lo sterminio di un’enclave cristiana mai venuta meno a una fede che affonda le sue radici nel primo secolo dopo Cristo, nella predicazione degli apostoli Taddeo e Bartolomeo, tanto che si parla di Chiesa Apostolica Armena non sostanzialmente poi così distante dalla Chiesa Cattolica. L’Armenia di S. Gregorio l’Illuminatore fu il primo Paese ad adottare il Cristianesimo nel 301 D.C. e la successiva traduzione in lingua armena della Bibbia, grazie alla certosina laboriosità dei monaci, è stato il collante che ha trasformato la gente in un popolo capace di non piegarsi ai conquistatori succedutisi nei secoli, da Tamerlano agli Ottomani. Tuttora gli armeni amano citare la frase di un loro antico eroe nazionale: “Chi credeva che la nostra fede cristiana fosse per noi come un abito, ora saprà che non potrà togliercelo, come il colore della nostra pelle”. Si tratta di un concetto fondamentale per capire il passato e decifrare il presente.
Monasteri. I numerosissimi monasteri di cui è costellato l’eterogeneo territorio, non sono solo pregevoli testimonianze storiche e architettoniche incesellate in paesaggi mozzafiato, ma cuore pulsante e fondante di un concetto di Nazione che non ha bisogno di confini territoriali per ritenersi tale. Zvartnots, Echmiadzin (il loro Vaticano), Haghpat, Sanahin, Goshavank, Khor Virap, Noravank, Ghegard sono nomi difficili al visitatore e già al ritorno rischiano di essere dimenticati o confusi tra Gavit e Khatchkar (le bellissime “croci fiorite” veri e propri merletti ricamati sulla pietra). Quel che resta è la spiritualità che ridefinisce i concetti di spazio e tempo, tramutando il ricordo in un’esperienza non solo percettiva ma anche emotiva.
Spiritualità. La stessa esperienza che folgora alla visione dell’Ararat che giunge all’improvviso nella immacolata maestosità dei suoi 5000 metri. La montagna sacra domina solitaria l’altipiano con ipnotica solennità: da Noè al brandy è un altro simbolo storico, religioso e identitario che si ritrova un po’ dappertutto, anche se il paradosso lacerante è che non è più in territorio armeno ma turco. Si può vedere e desiderare ma non toccare o calpestare. Più a nord sono le tonde forme del Caucaso Minore a sovrastare lande selvagge. La chiamano la Piccola Siberia, dove la natura domina e l’uomo è una comparsa finchè non ci si imbatte in un ospedale realizzato dalla Caritas italiana e voluto da Giovanni Paolo II dopo il terremoto del 1988 che tra Gyumri e Spitak costò 30mila morti e ferite non ancora rimarginate. Trent’anni dopo l’ospedale è gestito dai Camilliani e serve una fitta rete di zone rurali tra Georgia e Armenia.
Accoglienza. Il giorno della partenza la giovane Repubblica sorta nel 1991 dalle ceneri dell’ex Urss è ancora animata dalle manifestazioni di piazza che tuttora la stanno attraversando alla ricerca di una nuova stabilità politica cavalcata dalle forze dell’opposizione. Ma ci sarà ancora il cielo terso e la cima dell’Ararat sgombra di nubi. Per gli armeni è il segno dell’accoglienza al viaggiatore che vi posa lo sguardo: “L’Ararat si è levato il cappello… vuol dire che siete stati suoi graditi ospiti” chiosa la giovane e brava guida Aram Mkryam che ci ha fatto conoscere e amare la sua terra attraverso i suoi occhi.