Perché accade a dei genitori di ritrovarsi inaspettatamente di fronte a figli tramutati da bambini allegri, simpatici, felici in adolescenti “esistenzialmente bloccati”, volti a sfogare il loro malessere nella droga, nell’alcol, nella violenza distruttiva?È una domanda ricorsa spesso negli interventi delle mamme e dei papà degli 11 ragazzi de “L’imprevisto” che nelle scorse settimane, presso il Teatro Sperimentale, alla presenza di tante autorità e di tanti amici, hanno festeggiato la conclusione del loro percorso in comunità.Si può dare al problema una risposta di tipo sociologico eppure da quegli stessi racconti è risultato anche quanto sia riduttivo e incompleto fermarsi a tale spiegazione: Matteo, ad esempio, aveva tutto quello che un ventenne può desiderare (famiglia, diploma, lavoro, amici, macchina, sport) eppure non era mai contento.
In realtà, non bastano come motivazione i contesti sociali problematici. Il vero punto di partenza è il cuore “universale” dei giovani, fatto per “qualcosa di grandioso”, qualcosa che i più sensibili cercano con maggiore intensità e con maggiore fatica trovano.Questa è una verità che si scopre non quando manca qualcosa, ma proprio quando si ha tutto e ci si accorge che quel tutto non basta.L’imprevisto allora è incontrare persone o fatti che “accendono una luce” nel buio della vita: perché non è dal dolore che può nascere la riscossa, ma dall’incontro con “un lampo di bellezza”.Può essere, come per Enrico, un anziano detenuto che gli ha fatto intuire che la droga non c’entra niente con la felicità; o addirittura la morte drammatica di un fratello, come per Licja, risvegliatasi improvvisamente dal torpore in cui viveva.Un lampo di bellezza che tutti i ragazzi hanno detto di aver sperimentato nella comunità di Silvio Cattarina, nello sguardo pieno di affetto, stima, tenacia degli operatori e anche nella durezza rigorosa delle loro regole.
Lì è iniziato un percorso di cambiamento, che ha coinvolto anche le famiglie e che ha assunto forme diverse ma sostanzialmente comuni. Cominciare, ad esempio a provare dolore e vergogna per il male procurato a familiari e amici (Matteo); imparare a perdonarsi, dopo essere stati perdonati dagli altri; passare dal rancore verso il proprio passato, in particolare verso chi li aveva abbandonati, alla gratitudine per chi li aveva adottati o persino denunciati per salvarli (Alessandro e Andrea); cercare di essere semplici e umili di fronte a ciò che accade e chiedere aiuto (Mattia); riprendere gli studi, cercare un lavoro, reinserirsi e ricominciare a vivere.Certo, il ritorno alla vita quotidiana non sarà semplice: i problemi, le paure, le difficoltà rimarranno. Ma, come ha sottolineato Serena, l’esperienza della comunità non finirà mai perché è diventata per quei ragazzi un modo positivo di guardare la vita, gli altri, se stessi.