Venerdì 27 maggio, presso l’Hotel Flaminio, è stato presentato il libro di J. Carron “La bellezza disarmata” edito da Rizzoli. Relatore: don Stefano Alberto, docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Interventi: Luca Bartolucci, presidente del Consiglio Comunale di Pesaro e Riccardo Corbelli, direttore di area “retail” Pesaro Fano di Intesa San Paolo. Moderatore: Mauro Zagaria, responsabile della Fraternita di C.L.
Ben lontana dall’essere un’operazione di marketing o di incensamento dell’autore, la presentazione del libro di J. Carron “La bellezza disarmata” è stata – come aveva augurato nel suo messaggio l’Arcivescovo Piero Coccia impossibilitato a partecipare di persona all’incontro – “un momento di riflessione sul mistero del Cristo come esperienza di vera umanizzazione per ogni uomo e per tutto l’uomo”.
Un “politico” e un “bancario” si sono confrontati con un testo che hanno definito “affascinante e profondo”; un “grande racconto di fede, che ha il pregio di poter essere accostato anche da chi proviene da percorsi completamente diversi e non necessariamente spirituali”; un testo a tratti di faticosa lettura, non per la difficoltà del linguaggio, ma per la natura del contenuto, che “pone domande scomode, pone dei ‘perché’ che hanno a che fare con l’intangibile, in un’epoca in cui siamo alienati sulle cose tangibili” .
Ma con le “cose tangibili”, in realtà, il libro di Carron ha un forte ancoraggio: “Anche nel mondo bancario – ha detto infatti Corbelli – dove un semplice cambio normativo può togliere oggi tutti i punti di riferimento, si è capito che occorre cambiare paradigma: diversamente da quanto accadeva in passato, il “perché” è diventato prioritario rispetto al “cosa” fare e al “come” farlo; non è un caso se un workshop aziendale, tenutosi recentemente a Milano, ha avuto per tema “Costruttori di senso”.
Per agire, dunque – ha sottolineato don Stefano – bisogna chiedersi il perché. E occorre farlo anche nei confronti dei valori morali: perché la solidarietà? Perché la giustizia sociale, il rispetto della dignità dell’uomo e della vita? Perché l’impegno e il conseguente sacrificio?
Noi spesso sbandieriamo questi valori e ci appelliamo ad essi come se fossero “dogmi” intoccabili, come se avessero un’ “evidenza in sé”, come se fossero – magari non applicati – ma riconosciuti, a livello di principio, da tutti.
Invece non è così. Non esiste più una “morale universale”. Questa è stata l’illusione degli Illuministi, i quali, trovandosi nel settecento di fronte alle incoerenze, alle contraddizioni, alle divisioni delle confessioni religiose, hanno tentato di salvaguardare i valori morali – di cui esse erano portatrici – rendendoli indipendenti dalle confessioni stesse, in particolare dal cristianesimo. Hanno cioè pensato: ci sono dei valori che sono umani e universali e possono stare in piedi da soli; mettiamoli al riparo dalle contese religiose e manteniamoli su un terreno – per così dire – “ neutro”, che risulta più sicuro.
Questa convinzione, se da un lato ha avuto il merito di richiamare la Chiesa ai suoi valori originali, dall’altro si è rivelata nel tempo illusoria: ha retto per circa duecento anni e più (anche la nostra Costituzione è frutto di valori condivisi da uomini di fedi diverse). ma oggi risulta fallimentare. I cosiddetti valori morali sembrano sospesi sul vuoto di un abisso. Niente è più evidente. Ogni desiderio privato mira a diventare diritto pubblico. Persino la libertà democratica, su cui è nato l’Occidente, comincia, come afferma Antonio Polito, “a venire a noia o a far paura”. Oggi risulta difficile riscrivere un patto che ci tenga insieme.
Se è vero, dunque – scrive Carron – che i valori morali trovano corrispondenza nel cuore di ogni uomo, è anche vero che essi si offuscano se si separano dalla loro radice viva, dall’esperienza che li ha generati: tale esperienza, storicamente, è stata quella cristiana, che, quando è autentica, è universale, aperta a tutti.
Bisogna ripartire da questa esperienza. Ma noi cristiani siamo disposti a reimparare quello che crediamo di sapere già, quello che diamo per scontato? O, al contrario, rimaniamo a “guardare i tori dagli spalti”, lasciandoci invischiare nella logica “borghese”, scettica, del “tanto cosa vuoi che possa fare io”?
Invece è proprio l’io, ridestato da un incontro, il punto di partenza: un io stupito e aperto a uno slancio costruttivo. Come quello prefigurato nel canto popolare russo “La steppa”, eseguito prima degli interventi: “Tu, aquila della steppa, non volare radente a terra. Tu, cosacco del Don, non restare presso la riva, ma lanciati a briglia sciolta”,
Paola Campanini