Affermare – di fronte a tutte le brutture presenti nel mondo – che “Il nome di Dio è misericordia” sembra, come ha messo in evidenza in una recente intervista Benedetto XVI, decisamente stridente con la mentalità contemporanea, per la quale Dio dovrebbe invece giustificarsi davanti agli uomini per le brutture che permette.E invocare misericordia di fronte a tutte le crudeltà e le efferatezze degli esseri umani sembra perfino ingiusto alla logica comune, per la quale la giustizia non può corrispondere ad altro che a un’adeguata condanna.
Il tema scelto da Papa Francesco per il Giubileo, perciò, si cala nel drammatico contesto di un’umanità che – oggi come sempre (o forse più che in passato) – fatica ad accettare la presenza di Dio e soprattutto il metodo sommesso con cui Dio ha deciso di rivelarsi al mondo: quello della “debolezza onnipotente” di Gesù, che, da un lato, non vuole sopraffare, “lascia la zizzania senza estirparla”, attende con pazienza la libertà dell’uomo; dall’altro, gli assicura un amore infinitamente potente e fedele, capace di vincere ogni tradimento e ogni male. Arrendersi a un simile amore dovrebbe essere per l’uomo la conseguenza più naturale; e invece da sempre egli vi oppone una misteriosa resistenza.
“Qual è infatti la vera malattia del nostro tempo?” – si domanda il Papa facendo propria la risposta che già Pio XII dava più di mezzo secolo fa. E’ che gli uomini, pur avendo una percezione acuta dei loro limiti, non credono che esista un abbraccio che li salvi e pur avendo una dolorosa coscienza dei propri errori, hanno smarrito il senso del peccato “che è tutta un’altra cosa”: perché riconoscersi peccatori implica il “mettersi davanti a Dio, riconoscerLo come il proprio tutto, non considerarsi autosufficienti”. E’ questa autosufficienza la malattia del nostro tempo, ma anche il “peccato d’origine”, la radice di ogni male; è da questa autosufficienza che la misericordia di Dio vuole liberare l’umanità, ristabilendo con essa un rapporto.
Che cosa significa tutto questo per noi cristiani? Significa, innanzitutto, che dobbiamo chiedere per noi stessi la grazia di riconoscerci peccatori come “i pubblicani”, persone poco di buono che però si lasciavano attrarre dalla persona di Gesù e con Lui facevano esperienza di misericordia. Ma significa anche che dobbiamo imitare il modo con cui Gesù si rapportava agli altri: condannando, secondo verità, i “peccati” (come con l’adultera, con la samaritana, con il figliol prodigo), ma abbracciando sempre i “peccatori”, anche quando non avevano alcun prerequisito, come Zaccheo, salito sul sicomoro per pura curiosità o Matteo, incontrato nel pieno del suo disonesto lavoro.
La Chiesa ha continuamente bisogno di recuperare questo sguardo di misericordia: in primo luogo al suo interno, dove anche oggi si ergono tanti “giudici”, “progressisti e conservatori”, “preconciliari e postconciliari”, pronti ad emettere – in una sorta di catto-protestantesimo – sentenze di condanna contro ciò che non corrisponde al loro pensiero. In secondo luogo all’interno della società civile, la cui crisi va affrontata non ingaggiando battaglie ideologiche da “dottori della Legge”, ma – come è avvenuto in tempi non meno difficili, durante l’Impero romano e ai primordi della civiltà europea – “facendo il cristianesimo” , testimoniando la bellezza della vita cristiana e suscitando una “nostalgia” di Dio.