Dopo essere state pubblicate sul giornale cartaceo, riportiamo qui tutte insieme le 13 puntate di Raffaello VIP, il racconto della vita del Sanzio visto come oggi racconteremmo le vicende di un personaggio famoso. Buona Lettura!
Di Giovanni Volponi
“Quanto generoso e benigno si dimostri talora il cielo nell’accumulare in una persona sola le infinite ricchezze dei suoi tesori e tutte quelle grazie e i più rari doni che in lungo spazio di tempo suole distribuire fra molti individui, lo si poté chiaramente vedere in Raffael Sanzio da Urbino, non meno eccellente che grazioso”. Così inizia Vasari la sua storia, e non era uno che si abbandonava spesso a sviolinate. Lo scrittore non si sofferma sull’apprendistato urbinate, ma oggi sappiamo invece che fu una fase fondamentale, in cui assorbe il clima della corte ducale frequentata dai più grandi artisti ed eruditi del tempo. In pochi anni diventa, a causa della morte del padre, titolare della bottega e magister, ovvero mastro pittore. Non era cosa da tutti. Urbino ha chiese e palazzi meravigliosi. Raffaello osserva i dipinti e la biblioteca dei duchi, le miniature, i codici su architettura, prospettiva, cultura classica. Urbino fu la sua fortuna, anche in futuro come vedremo. Il padre, che conosceva Perugino, glielo affida per un po’ e Vasari ci dice che il ragazzino lo imita talmente bene che la gente scambiava l’autore: certi dipinti, se non fosse documentato, potrebbero essere dati a entrambi. Spostatosi a Città di Castello, mette in pratica la prospettiva di Piero della Francesca nella piazza e nel tempio dello Sposalizio della Vergine, che firma Raphael Urbinas. Dopo un passaggio a Siena, si sposta a Firenze, grazie alla lettera di raccomandazione di Giovanna da Montefeltro, sorella di Federico. Qui dipinge per l’amico Lorenzo Nasi la Madonna del Cardellino (oggi Uffizi), una delle opere più famose fin da allora. Quando la casa di Nasi nel 1548 crolla per una frana, la tavola è ritrovata rotta in 17 pezzi e restaurata, cosa che ne accresce la fama. Gli anni che seguono li passa tra Urbino, facendo alcuni lavori per il duca Guidubaldo, Perugia, dove ha grande eco il suo primo affresco, ancora Firenze e ancora Perugia, dove compie la Deposizione Baglioni, uno dei suoi capolavori. Chiesta da donna Atalanta per commemorare il figlio, ultimo caduto di una lunga serie di delitti per faide tra famiglie, secondo Vasari “fa stupire chiunque la mira per l’aria delle figure, per la bellezza delle vesti et insomma per una estrema bontà che ha in tutte le parti”. La strada per Roma si spalanca davanti a Raffaello. È l’anno 1507.
Prima di scendere a Roma, Raffaello a Firenze coglie l’occasione per fare un ‘corso d’aggiornamento’: studia le opere di Masaccio, di Leonardo, di Michelangelo. Raffaello è abilissimo nel carpire da ogni artista i lati migliori e la sua capacità di unione e sintesi sarà la sua fortuna. Nel frattempo, il ricco mercante Agnolo Doni (che aveva già fatto fare a Michelangelo il famoso Tondo) gli chiede i ritratti suo e di sua moglie. I Canigiani gli ordinano una Sacra Famiglia nella quale inserisce una prima versione di angioletti intenti a giocare che in seguito perfezionerà con successo. La famiglia Dei infine gli chiede una grande pala (la Madonna del Baldacchino). È a buon punto quando gli giunge una notizia: papa Giulio II lo convoca a Roma. Egli non esita un istante e non termina la pala, che nonostante ciò verrà subito stimata tantissimo e trattata come un quadro vero e proprio. Se fosse stata di un altro artista probabilmente sarebbe stata riutilizzata, solo per il valore del legname. Oggi invece è esposta a Palazzo Pitti accanto alle altre sue opere. Urbino anche stavolta ci mette lo zampino tramite il conterraneo Donato Bramante, architetto di S. Pietro, che fa da tramite tra lui e il papa. Bramante aveva realizzato delle nuove stanze nel palazzo apostolico dove Giulio II voleva trasferirsi, per lasciare quelle abitate dal predecessore, il famigerato Alessandro VI Borgia. Le sale però non sono vuote: tanti artisti diversi ne avevano dipinte delle parti. Il papa dà ordine di cancellare tutto e iniziare dalla stanza della Segnatura con un nuovo ciclo pittorico unitario. È il 1508.
Raffaello è finalmente a Roma, la città che in quel momento è la meta più agognata per ogni artista. E il papa gli commissiona le sue stanze private. Per i pittori già in città, ovviamente il Sanzio è un intralcio, ma un po’ conosciutolo per la fama che lo precedeva, un po’ dopo averlo visto in azione, gradualmente tutti riconoscono il suo genio. Nella stanza della Segnatura, dopo una lunga serie di studi preparatori, dipinge le quattro discipline fondamentali della cultura umanistica: la teologia con la Disputa del Sacramento; la filosofia con la Scuola di Atene; la poesia nel Parnaso e la giurisprudenza con le Virtù e la Legge. La stanza, compiuta in circa 4 anni, è per Raffaello una dimostrazione di bravura parete dopo parete; secondo Vasari il suo intento è di tenere, tra tutti i pittori, il dominio incontrastato. E di fatto ci riesce. Alcuni commenti di Vasari indicano l’ammirazione, anche dopo un secolo: nel Parnaso si vede ‘quasi il tremolare delle foglie’, Dante, Petrarca e Boccaccio paiono vivi. Raffaello nella Disputa torna a dipingere quattro angioletti, che ‘nessun pittore potrebbe formar più leggiadri né di maggior perfezione’. Le espressioni dei Santi specialmente colpiscono il Vasari: ‘attenzione negli occhi, increspare delle ciglia, curiosità, affanno…’ Pochi sanno che la parte bassa della stanza era rivestita di stupende tarsie simili allo studiolo di Urbino, ma furono eliminate solo qualche decennio dopo da Paolo III. Nella Legge il Sanzio ritrae Giulio II, al quale l’affresco piace molto e glielo fa rifare in quadro. Il ritratto è ‘tanto vivo e verace, che faceva temere a vederlo, come se proprio egli fosse vivo’. È il 1511.
Il nostro artista, col termine della prima stanza vaticana, è ormai osannato da tutti, e la rivalità con Michelangelo muove i primi passi. Mentre il savoir-faire del Sanzio gli procaccia nuove amicizie, come quella col ricchissimo Agostino Chigi, che prima gli ordina gli affreschi nella sua villa (Trionfo di Galatea) e poi l’intera progettazione della cappella di famiglia in S. Maria del Popolo, il Buonarroti invece litiga continuamente col papa, e in un momento di assenza da Roma, Bramante che come architetto aveva le chiavi della Sistina, mostra a Raffaello gli affreschi in lavorazione. Egli carpisce con grande maestria il modo michelangiolesco di rendere le figure umane, e lo utilizza subito. Il nuovo stile del Sanzio e il grande successo della cappella Chigi irritano Michelangelo, ma Raffaello non se ne cura e passa alla commissione successiva. Un segretario del papa gli chiede una pala come ex voto per la sua casa folignate colpita da un fulmine (tradizionalmente un bolide) ma senza danni: è la Madonna di Foligno. Maria è con Gesù tra le nubi formate da decine di angioletti. In basso, con volti unici e reali, il Battista, S. Francesco, S. Girolamo stranamente in veste blu che accarezza il committente ottantenne in mantello rosso foderato d’ermellino. Solo il suo ritratto farebbe del quadro un capolavoro, ma l’angioletto in primo piano col cartiglio vuoto è una bomba di tenerezza. Il paesaggio è una miniatura di quelle che lui sa ben fare. Il blu usato per cielo e abiti è di una tonalità a dir poco stupenda. Il quadro ha il solito successo. È il 1512.
Raffaello incassa nuove commissioni una dietro l’altra: il papa, visto il successo mondiale della stanza della Segnatura, gli chiede di proseguire con la camera adiacente. L’ambiente presenta quattro pareti di cui due finestrate. Il Miracolo eucaristico di Bolsena va in una di quelle con la finestra: essendo la scena ambientata in una chiesa, Raffaello colloca l’altare sopra la finestra, con delle finte scalinate che scendono a sinistra e a destra in modo da creare un piano più basso dove colloca i fedeli e i servitori del papa, che (con una licenza artistica) egli pone in alto ad assistere al miracolo nonostante sia avvenuto 250 anni prima. Giulio II è quindi coprotagonista dell’affresco. Il papa si fa ritrarre anche nella scena della Cacciata di Eliodoro dal Tempio, questa volta osando ancora di più: colui che invoca i guerrieri celesti a scacciare il profanatore Eliodoro dovrebbe essere il sommo sacerdote dipinto in fondo alla scena, ma sembra quasi che sia lo sguardo di Giulio II, in primo piano a sinistra, a muovere il tutto. L’altra parete con la finestra per il Sanzio sarà uno dei più grandi successi: la Liberazione di S. Pietro dal carcere. Divide lo spazio in tre scene, tutte e tre dei notturni, una rarità all’epoca. In alto, Pietro viene svegliato dall’angelo che emana un bagliore accecante; fuori dal carcere, la falce di luna rischiara i soldati che non si capacitano dell’evasione; infine, i due escono dalla cella prodigiosamente senza essere visti. Una sorta di affresco-fumetto, coi contrasti luce-buio che faranno scuola per secoli. La routine però si spezza quando Giulio II, colto da una complicanza della sifilide, muore. È il 21 febbraio 1513.
Il 9 marzo 1513, dopo un solo giorno di conclave, è eletto papa Giovanni de Medici, secondo figlio di Lorenzo il Magnifico. Pur divergendo significativamente dallo stile del predecessore, li accomuna il mecenatismo per l’arte. Raffaello non può che esserne contento, infatti il suo lavoro praticamente non subisce interruzioni. Mancava una parete nella seconda stanza papale, e il Sanzio la adatta subito ai dettami del nuovo pontefice. Come Giulio II, anche Leone X vuole comparire negli affreschi, ma lo fa in modo meno sfacciato: si fa inserire sotto mentite spoglie, ovvero nei panni degli altri papi di nome Leone suoi predecessori. Dunque nell’ultima parete Raffaello dipinge Leone III che ferma Attila alle porte di Roma. Il papa gli dice di inserire anche i Santi Pietro e Paolo, protettori dell’urbe, che dall’alto sostengono la coraggiosa mossa del papa, episodio non tramandato da alcuna leggenda, che il Medici vuole per ribadire che il ruolo del pontefice è sotto la loro protezione. Vasari elogia molto la bellezza dei tanti cavalli di tante razze e colori in vari atteggiamenti, ed è da notare anche l’abbandono, per la prima volta dall’inizio delle Stanze, della simmetria nella scena: la parte sinistra, dov’è il papa ieratico, è ben più stretta rispetto allo spazio dato alla massa degli Unni. Eppure il primo, con l’aiuto divino, ha la meglio sul secondo. Leone X è più che soddisfatto, e oltre a dargli un premio in denaro gli chiede un ritratto ufficiale coi due cardinali nipoti, tutt’oggi tra i più celebri del Sanzio, con la poltrona e la campanella che superano per finezza i tre soggetti protagonisti.
Fin da piccolo Raffaello ha modo di osservare la gestione della fiorente bottega paterna; crescendo, dimostra da subito che tra le sue abilità vi è anche quella di gestire con ottimi risultati una squadra di lavoro efficiente. Assolda diversi pittori, qualcuno più giovane ma anche coetanei e più anziani, ognuno col suo stile, ma tutti bravissimi a eseguire coi colori ciò che il Sanzio delinea a matita nei cartoni, senza far trasparire più di tanto le loro singole mani. Questo schema organizzativo, messo a punto durante la prima stanza papale per far fronte ai grandi affreschi in breve tempo, non verrà più abbandonato, anzi il maestro lascerà sempre più compiti ai suoi discepoli per riservarsi solo i disegni preparatori e dedicarsi ad altri incarichi. È solo grazie alla bottega che può accettare anche altre commissioni durante gli impegnativi appartamenti papali. E infatti in questo periodo Vasari ricorda ben sette opere: la Madonna del Pesce e la Perla (oggi entrambe a Madrid), la Madonna del Divino Amore (Napoli), la Visione di Ezechiele (Firenze, Pitti), il Ritratto di Bindo Altoviti (Washington), la Madonna dell’Impannata (Pitti) e la Santa Cecilia (Bologna). Come dicevamo, la mano della bottega è consistente, infatti la critica oggi li attribuisce tutti (eccetto il Ritratto e la Visione) agli aiuti, con un intervento più o meno esteso di Raffaello. Tra questi, la Santa Cecilia riceve commenti lusinghieri: le vesti dorate, il gruppo di strumenti musicali finemente riprodotti, le pose degli altri Santi, gli angeli non in mezzo ma sopra le nubi, sono tutti elementi di grande bellezza. Un’incisione del Raimondi la diffonderà ovunque: a Urbino il giovane Federico Barocci la copierà, e sarà il suo primo quadro.
Abbiamo accennato la scorsa settimana alla diffusione delle opere di Raffaello tramite le incisioni. Fu questa una vera e propria rivoluzione: già la fama del Sanzio aveva valicato i confini per giungere, come dice il Vasari ‘sino in Francia et in Fiandra’. Ma erano testimonianze di viaggiatori o ambasciatori: la sua arte non era uscita dall’Italia. Tramite l’amicizia con il pittore e incisore tedesco Albrecht Durer, Raffaello capisce la potenzialità delle stampe in serie e contatta Marcantonio Raimondi per farlo diventare suo incisore e ‘distributore’ ufficiale. Raffaello invia disegni, Marcantonio li incide su rame, li stampa e li vende. Oltre al Raimondi, saranno in diversi, specialmente dopo la morte del Sanzio, a incidere sue opere. Una stampa di Raffaello poteva essere acquistata da chiunque, non solo dai ricchi che gli commissionavano un dipinto. Tutto ciò, anche se a Raffaello non frutta pressoché nulla, sarà la principale via con cui tutta Europa conoscerà l’arte dell’Urbinate e si diffonderà la sua ‘maniera’. In questo periodo, altre due opere hanno grande eco: la prima è la Velata, ritratto forse della sua donna, ovvero la fornarina, dipinta con grande semplicità nel volto ma con sublime bellezza e minuzia nel vestito (oggi Firenze). L’Andata di Cristo al Calvario (oggi al Prado) è invece una pala chiestagli dai monaci olivetani di Palermo. Durante il viaggio verso l’isola, la nave naufraga ma l’opera viene ripescata presso Genova e trovata quasi perfetta. Considerato un miracolo, i monaci, tramite l’intercessione del papa, pagano un secondo viaggio e finalmente giunge a Palermo. La notorietà è subito immensa, anche perché la pala è bellissima e piena di personaggi e concitazione. Infatti Filippo IV di Spagna se ne innamora e approfittando del suo dominio sulla Sicilia nel ’600 la compra e se la porta a Madrid.
Leone X non dà tregua a Raffaello, né lui gliela chiede: l’efficiente bottega porta avanti le sue idee egregiamente, e in questo modo tiene testa a richieste private, commissioni papali, incisioni, studi sull’arte e archeologia romana, progetti edilizi. Papa Medici gli chiede di affrescare la terza stanza, la sala da pranzo, già dipinta nella volta dal suo maestro Pietro Perugino. Raffaello riceve l’incarico nel 1514 e lo termina tre anni dopo, dedicandosi nel frattempo a tante altre cose. Lo termina grazie al contributo sempre più consistente di Giulio Romano, Giovan Francesco Penni, Raffaellino del Colle e Giovanni da Udine. Gli studiosi dicono infatti che solo nella prima parete si riscontra la mano del maestro, che nelle successive lascia la stesura tutta in mano agli aiuti, fermandosi ai cartoni preparatori. Leone X chiede a Raffaello di continuare reperendo episodi della vita dei pontefici Leone III e Leone IV, ma mettendo al loro posto il volto del Medici. Baldassarre Castiglione, amico del Sanzio e oggetto di un bel ritratto, gli suggerisce i temi. L’Incendio di Borgo è certamente la più bella parete: il Sanzio inserisce virtuosismi come i tre nudi sulla sinistra che si rifanno alla fuga da Troia di Enea col padre Anchise e il figlio Ascanio. Dipinge la basilica vaticana e il quartiere di Borgo oggi sostituito da via della Conciliazione. Papa Leone IV dall’alto ferma l’incendio, per cui Leone X si vuole mostrare come protettore di Roma. Le altre tre storie finiscono per essere un contorno di lusso: nella Battaglia di Ostia lo stesso papa assiste alla vittoria delle Repubbliche Marinare sui Saraceni: la difesa della cristianità. L’Incoronazione di Carlo Magno per opera di Leone III allude alla oculata politica estera del Medici. La Giustificazione di Leone III infine ricorda come i pontefici siano giudicabili solo da Dio. La terza stanza è compiuta.
Il nostro artista, alle prese con dipinti, affreschi, incisioni e i sollazzi dell’alta società romana, non ha però ancora l’agenda così piena, visto che inizia a cimentarsi anche nell’architettura e nell’archeologia. Sono gli ultimi anni del ’400 quando viene scoperta la Domus Aurea. Il Sanzio, giunto a Roma qualche anno dopo, si fa calare nelle strane grotte del colle Oppio e ha modo, come tanti suoi colleghi, di ammirare le decorazioni volute da Nerone, denominate subito grottesche. Esse divengono rapidamente una moda, specie dopo che Raffaello vi tappezzerà le logge del palazzo apostolico, e da quel momento si diffonderanno in tutta Europa anche col nome di raffaellesche (Caterina di Russia, innamorata, farà una copia identica delle logge all’Ermitage). Il Sanzio si appassiona alle antichità romane al tempo tutte in abbandono, e studia soprattutto l’area del Pantheon, dove vorrà poi essere sepolto. Per questo suo interesse, Leone X gli conferisce l’incarico di custode e catalogatore delle antichità: i suoi studi sfoceranno in una pianta della Roma imperiale e in alcuni disegni degli edifici più importanti. È il primo caso nel mondo di interesse per la salvaguardia dell’archeologia. Vasari ci parla anche del suo genio di architetto: già aveva progettato, anche grazie agli insegnamenti di Bramante, le scuderie di villa Farnesina, la chiesa di S. Eligio degli Orefici e alcuni palazzi privati. Ma quando l’11 aprile 1514 il conterraneo Bramante muore, Raffaello prende il suo posto come architetto pontificio, e in tale veste prosegue i lavori della nuova San Pietro e delle stesse logge che affrescherà. Sarà lui a ideare per primo, con l’aiuto di un modellino ligneo, la pianta allungata che poi, con tante modifiche e un secolo di lavori, verrà effettivamente eretta e possiamo ammirare ancor oggi.
Tante commissioni si accavallano: Lorenzo De’ Medici gli chiede una Sacra Famiglia e un San Michele che sconfigge Satana da regalare al re di Francia. Raffaello, che può permettersi di far attendere cardinali e duchesse, non può però rifiutare una richiesta del nipote del papa e quindi entro il 1518 vengono spediti oltralpe. Il San Giovanni Battista, un michelangiolesco studio anatomico col pretesto religioso, viene invece dipinto per il card. Colonna (oggi Uffizi). Capitolo a parte è la celebre Madonna Sistina, dove l’estro del pittore tocca uno degli apici. Vasari la definisce ‘cosa veramente rarissima e singolare’, e non ha torto: poggianti su un pavimento di nubi che sullo sfondo, come la Madonna di Foligno, diventano teste di angioletti, stanno San Sisto e Santa Barbara, con dolci movimenti rivolti allo spettatore. Al centro, dietro due tende aperte a sipario, la Madonna tiene con fierezza il figlio seduto con una gamba accavallata all’altra, una posizione nuovissima. Ma ciò che rende il quadro una icona pop mondiale sono i due angioletti in basso, come appoggiati alla cornice e con gli occhi e le capigliature tenerissime. Fatto per un monastero di Piacenza, venne acquistato nel 1754 dal re di Polonia per la pinacoteca di Dresda. Dopo l’affresco di Galatea, Agostino Chigi chiede al Sanzio di decorare una loggia con le Storie di Psiche: in un intreccio di pergolati, frutti e fogliami, sono raccontati diversi episodi mitologici, che si concludono col grande banchetto nuziale, allusione al matrimonio del Chigi. Il solito successo è però smorzato da alcune critiche verso la loggia e l’ultima stanza vaticana dovute al massiccio impiego della bottega rispetto ai lavori realizzati di suo pugno. Michelangelo riceve compiaciuto una lettera in cui la loggia è definita ‘cosa vituperosa’. Ma Raffaello si prepara al contrattacco. È il 1519.
Il nostro si muove tra critiche e invidie con noncuranza. Si dice frequenti tante donne, in particolare una, la cosiddetta fornarina, a cui è molto legato e la cui bellezza è consegnata ai posteri dal bel dipinto omonimo. Ma si dice anche che non si sposa perché aspira al cardinalato. La verità è che a 37 anni e con una carriera in costante ascesa, non ne vuole sapere di prender moglie: deve ribadire che la sua mano è ancora ottima e che la bottega è alla sua altezza. Leone X gli commissiona la quarta sala, per la quale si dedica subito ai disegni. Nel frattempo, giungono notizie da Bruxelles: i dieci enormi arazzi i cui cartoni egli aveva elaborato quattro anni prima sono pronti e stanno per arrivare. E sono destinati nientemeno che alle pareti della Cappella Sistina, sotto gli affreschi del suo collega-rivale Michelangelo. Nei mesi di attesa, gli viene chiesta una Trasfigurazione dal card. Giulio de’ Medici; il Sanzio si impegna a condurla a termine di suo pugno, un po’ per le critiche, un po’ perché contemporaneamente lo stesso cardinale ha ordinato a Sebastiano del Piombo (amico del Buonarroti) un quadro diverso ma da collocare poi nella stessa chiesa. Gli riuscirà forse il più bel quadro da lui dipinto; sicuramente il più famoso tra i posteri, anche se la parte inferiore verrà terminata da Giulio Romano. Gesù tra Mosè ed Elia, avvolti da una nube chiarissima, fluttuano nell’aria in maniera solenne ma leggera, mentre più in basso gli apostoli osservano increduli il fanciullo che viene guarito dal demonio. Il 26 dicembre 1519 vengono inaugurati gli arazzi nella Sistina: tutti rimangono sbalorditi nel vedere dei tessuti fatti da migliaia di fili colorati che per perfezione paiono quasi dipinti. Raffaello dilaga anche nella roccaforte di Michelangelo. Dedica i mesi successivi alla Trasfigurazione e alla quarta sala papale, ma dopo una febbre repentina, muore il 6 aprile 1520.
La scomparsa improvvisa di Raffaello scuote Roma. Il fatto che si spenga di venerdì santo alimenta fin da subito il culto verso la sua figura, quasi come un profeta dell’arte, destinato a superare tutti gli altri ma rapito a soli 37 anni. Tutta l’alta società e la corte papale gli rendono omaggio: nella sala dove lavorava si allestisce il feretro con la Trasfigurazione, ancora incompleta, dietro di lui, in maniera assai scenografica. Tutte le cronache ci raccontano come Leone X piange amaramente la sua scomparsa. Possiamo immaginare che non sia una esagerazione: egli perde in maniera inaspettata il suo principale artista, architetto e archeologo, cioè colui che gestiva tutti i cantieri del Vaticano e gli scavi di Roma, e li gestiva abilmente e senza scandali, con passione e dedicandovi tutto sé stesso. Come lui infatti il papa non troverà altri, e dovrà distribuire gli incarichi a più persone, dalle capacità comunque più modeste. Prima di morire, lascerà per testamento alcune sostanze alla donna amata, e tutto il resto, specialmente i suoi disegni e cartoni, diviso tra i suoi più stretti collaboratori: Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Vasari ci dice che anche un suo zio prete di Urbino è tra i beneficiari: si tratta di un Ciarla, parente materno, a cui probabilmente vanno i beni immobili di Urbino, in modo da restare in famiglia. Gli amici intellettuali dell’epoca fanno a gara per scrivergli epitaffi memorabili: Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione sono solo alcuni. Il mito di Raffaello, iniziato già in vita, si è ormai consolidato ed è pronto per attraversare i secoli. Nel testamento vuole essere sepolto al Pantheon, antico tempio romano già all’epoca diventato chiesa che lui tanto aveva studiato per l’ardita architettura, e ancor oggi lì riposa. Raffaello non fu solo un grande pittore, fu un uomo del suo tempo a tuttotondo, fu un artista che seppe coniugare le tecniche migliori in una sola, fu amante di ogni disciplina e amato da tutti, fu tra le persone più famose al mondo per due decenni. Fu un VIP d’altri tempi.