È in programma a Pesaro per giovedì 21 novembre, la conferenza del giornalista di Avvenire Nello Scavo, invitato dalla Caritas Diocesana nell’ambito delle iniziative riguardanti la terza Giornata mondiale dei Poveri . Il reporter che dallo scorso 18 ottobre vive sotto scorta, interverrà a Palazzo Montani Antaldi alle ore 21.00 sul tema: “Salvare vite in mare e lottare contro le reti criminali a terra”. Un argomento di stretta attualità che si intreccia con l’altrettanto attuale questione dell’importanza del giornalismo oggi.
Il provvedimento di tutela dello Stato è scattato dopo le minacce ricevute da Nello Scavo per la sua inchiesta sul traffico di esseri umani dalla Libia che ha portato allo scoperto Abd al-Rahman al-Milad, l’aguzzino dei migranti noto come Bija. E così lo scorso 5 novembre il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Beppe Giulietti, a capo di una delegazione della Fnsi (Federazione nazionale della stampa) si è recato nella sede milanese del quotidiano cattolico: «Siamo qui per solidarizzare con il giornalista Nello Scavo – ha detto Giulietti – e chiedere agli altri giornali e agli altri colleghi di riprendere le inchieste e pretendere risposte dal governo alle domande aperte» sul trafficante libico Bija e le sue connessioni con l’Italia che Avvenire ha documentato e portato alla ribalta.
Tra le tante voci di solidarietà a Nello Scavo e ad Avvenire segnaliamo anche quella di Lorenzo Frigerio, in rappresentanza di Libera, di Monica Forni e Pino Nardi, dell’Unione cattolica della stampa italiana (Ucsi) e di Pier Giorgio Severini, presidente dell’Associazione stampa delle Marche. Anche Il Nuovo Amico ha scelto di aderire a questo appello di “scorta mediatica”, tenendo aggiornati i nostri lettori sull’andamento dell’inchiesta di Nello Scavo che a tutt’oggi non è ancora giunta al termine.
I crimini nei lager della Libia
Nuovi mandati d’arresto contro esponenti libici, coinvolti anche nel traffico di esseri umani. Li sta per trasmettere la Corte penale dell’Aja (Olanda), ormai agli ultimi passi di una maxi-inchiesta che per la prima volta porterà davanti alla giustizia internazionale alcuni boss vicini a milizie e autorità. La montagna di prove raccolte conferma le violenze sia «nei centri di detenzione ufficiali che in quelli non ufficiali». Un atto d’accusa che avrà pesanti ripercussioni su Tripoli e su quei governi che foraggiano l’intero sistema, nel quale si intrecciano interessi politici e criminali.
Strategia. Alla sbarra potrebbero finire personaggi con cui le autorità europee ed italiane continuano a trattare, senza mai riuscire a ottenere il minimo incremento nel rispetto dei diritti umani di base. Sotto processo viene messa l’intera impalcatura negoziale che in questi anni, pur di salvaguardare interessi politici, economici e militari ha finito per lasciare mano libera agli aguzzini, al solo scopo di poter celebrare successi nel contenimento dei flussi migratori. Le accuse contenute nel rapporto numero 18 della Procura dell’Aja sono rivolte indistintamente ai campi di prigionia (sotto il controllo del Dipartimento contro l’immigrazione illegale di Tripoli) e alle prigioni clandestine (molte delle quali conosciute dalle autorità). «Nel 2019 oltre 4.800 rifugiati e migranti – denuncia l’Aja – sono stati arrestati arbitrariamente in Libia. Molti sono vulnerabili a causa della loro vicinanza nelle aree di combattimento a Tripoli e dintorni». Non bastasse rischiare la vita sotto le bombe, «migranti e rifugiati – si legge nel dossier – continuano a essere a rischio di tortura, violenza sessuale, rapimento per riscatto, estorsione, lavoro forzato, uccisioni illegali e detenzione in condizioni inumane».
Violenze. I funzionari del Palazzo di Vetro già nel 2018 avevano ricevuto un paper dall’Aja nel quale veniva documentato «l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale». E nel maggio 2017 la procuratrice, intervenendo davanti al Consiglio di sicurezza, disse che «secondo fonti credibili, gli stupri, gli omicidi e gli atti di tortura sarebbero all’ordine del giorno e sono rimasta scioccata da queste informazioni che assicurano che la Libia è diventato un mercato per la tratta di esseri umani». Due anni dopo manca solo l’ultimo passaggio: l’emanazione dei mandati d’arresto in campo internazionale. Intanto gli investigatori hanno cooperato, si apprende adesso, con la magistratura di alcuni dei Paesi che hanno aderito alla Corte penale (la Libia non è fra questi) «fornendo prove e informazioni-chiave alle autorità nazionali, e facilitando i progressi in numerose indagini e azioni penali relative ai crimini contro i migranti in Libia». Il report non indica di quali Paesi si tratta, ma non è difficile immaginare che alcune delle indagini recenti soprattutto in Italia sui trafficanti di esseri umani possano avere beneficiato di questa collaborazione.
Difficoltà. La Corte penale ha emesso negli anni scorsi diversi mandati di cattura destinati a esponenti del deposto clan Gheddafi, tra cui il figlio Saif al-Islam e militari fedelissimi al generale Haftar. Eppure né l’esecutivo al-Sarraj né il suo nemico Haftar hanno mai voluto consegnare gli imputati all’Aja, anche se «riteniamo di sapere dove si trovano», dice Bensouda alludendo a complicità di Paesi esteri, fra cui l’Egitto, dove risiede almeno uno dei tre ricercati. Coperture che nel caso dei boss del traffico di esseri umani potrebbero allungare ombre sui loro interlocutori in Europa.
NELLO SCAVO
Accordo tra Italia e Tripoli
Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Beppe Giulietti, ha invitato tutte le testate italiane a riprende e pubblicare le inchieste del giornalista di Avvenire Nello Scavo finito sotto scorta per aver realizzato alcuni reportage sulle condizioni di detenzione dei migranti nei cosiddetti lager libici. Lo scorso 4 ottobre, Nello Scavo è stato l’artefice di uno scoop a cui tutti hanno dovuto guardare. Ha infatti provato la presenza di Abd al-Rahman al-Milad, militare e regista del traffico libico di esseri umani, all’incontro di Mineo del 2017, un tavolo di lavoro tra autorità italiane e libiche, finalizzato ad un accordo (Memorandum) per bloccare le partenze dei profughi da quel paese al nostro.
«Il Memorandum Italia- Libia ha contribuito alla drastica riduzione delle partenze e alla riduzione dei morti sulla rotta del Mediterraneo centrale». Inizia così, la sua informativa urgente davanti ai deputati della Camera, a Montecitorio, sul rinnovo del Memorandum bilaterale del nostro Paese con Tripoli, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Chiamata a dar conto della rinegoziazione del Memorandum annunciata dal governo l’ultimo giorno utile, lo scorso 2 novembre, per scongiurare il tacito rinnovo, la titolare del Viminale non ha però trovato la sponda dell’Aula. Nel mirino di una certa parte del suo stesso governo, sono state soprattutto le parole usate citando il «miglioramento dei Centri di detenzione (tra i punti in negoziazione con Tripoli, ndr) con l’obiettivo di una loro graduale chiusura per giungere a centri gestiti dalle agenzie dell’Onu». «Ho appena ascoltato alla Camera l’intervento della ministra Lamorgese sulla Libia. Un intervento imbarazzante e ipocrita – attacca il deputato del Pd, Matteo Orfini –. I lager sono ‘centri’ di migranti. Il memorandum una cornice da difendere. I libici partner affidabili. Davvero vogliamo continuare a far finta di non sapere?».
L’informativa del titolare del Viminale, sul quale il governo ha chiesto la convocazione della prevista commissione per rivedere alcuni termini dell’accordo, è l’occasione per il centrodestra di marcare le distanze e ribadire la linea della fermezza sul fronte migrazioni, puntando il dito contro il ministro che ha incontrato al Viminale le Ong «che hanno messo in pericolo la sicurezza del Paese» (sottolineano i leghisti) anziché, ad esempio, la Marina militare o le forze dell’ordine impegnate a individuare i trafficanti.
“Rispettare i diritti umani”. È l’appello lanciato ad una sola voce da Caritas italiana, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Migrantes, Acli, Associazione Papa Giovanni XXIII e Cnca tra le firmatarie della lettera aperta inviate alle Istituzioni.
A CURA DELLA REDAZIONE
Sei domande senza risposta
Il campionario di menzogne, omissioni, depistaggi, perfino di omertà, conferma quanto sul «caso Bija» ci sia molto da scoprire. È trascorso quasi un mese dalle rivelazioni di Avvenire sulla presenza del comandante al Milad durante incontri con autorità italiane nel 2017. Ma la maggior parte dei chiarimenti manca ancora. Unica certezza, Milad noto come Bija è ufficialmente al timone della cosiddetta Guardia costiera di Zawyah, per merito degli accordi sull’asse Tripoli-Roma-Bruxelles, che non impediscono ai boss libici la piena libertà di manovra. Il ministro dell’Interno di Tripoli ha ribadito la validità di un mandato di cattura per Milad. Il giorno dopo la Guardia costiera libica lo aveva smentito, assicurando che Bija era tornato al suo posto. Il rinnovo del Memorandum firmato il 2 febbraio 2017 scatta ora per effetto del silenzio-assenso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio assicura di voler introdurre modifiche all’intesa per «rafforzare le condizioni per i migranti, migliorarle di molto sia nei centri sia nella gestione dello sbarco, quando la Guardia Costiera li salva in mare». Quella stessa Guardia costiera che secondo l’Onu è coinvolta nella cattura dei naufraghi allo scopo di rivenderli ai trafficanti. Contro la conferma del patto italo-libico diverse organizzazioni hanno avviato un “bombardamento” sul premier Conte, inviando migliaia di email di protesta. Ecco i principali punti da chiarire.
Domanda 1. Chi erano i membri della delegazione libica?
Né da Tripoli né da Roma è mai stata divulgata la composizione della rappresentanza partita dal Paese nordafricano. Incrociando le informazioni da fonti ufficiali, che continuano a implorare l’anonimato, e analizzando le immagini pubblicate si è avuta la certezza che dalla Libia fossero arrivate almeno 13 persone. Documenti anche in nostro possesso chiariscono che si trattava di emissari del ministero dell’Interno e di altri dipartimenti del governo del premier al-Serraj. Una foto ufficiale li ritrae a Roma presso il comando della Guardia costiera italiana. Perché allora non divulgare nomi e incarichi?
Domanda 2. Da chi sono stati selezionati i componenti della delegazione?
Fonti del governo italiano di allora e altre dell’attuale configurazione del ministero dell’Interno hanno sostenuto che i libici sono stati invitati dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Ma dall’agenzia Onu assicurano di non aver avuto voce in capitolo nella scelta dei componenti, individuati da Tripoli e accettati dall’Italia.
Domanda 3. Chi ha fatto circolare la falsa notizia sui documenti contraffatti di Bija?
Fonti anonime rilanciate da alcune agenzie di stampa, subito dopo la pubblicazione delle immagini scattate nel Cara di Mineo durante una riunione a porte chiuse con gli ospiti libici, hanno dichiarato che Bija avrebbe raggirato le autorità consolari. Invece al Milad era arrivato con passaporto autentico e un regolare visto concesso dall’ambasciata italiana a Tripoli. Intervistato la settimana scorsa da Francesca Mannocchi per Propaganda Live e per l’Espresso, Bija ha addirittura sostenuto di essere stato «intervistato» negli uffici consolari che lo hanno poi autorizzato a partire. Nessuna smentita è pervenuta. Ma non si sa quale sia stato il contenuto di quella «intervista».
Domanda 4. Quale è stato il programma di viaggio della delegazione libica?
Da nostre ricostruzioni, il gruppo arrivato da Tripoli era il 9 maggio a Roma, l’11 a Mineo, nel Catanese, e il 15 maggio sarebbero rientrati in Libia. Bija ha sostenuto di avere visitato varie regioni italiane, ma resta un buco di almeno quattro giorni.
Domanda 5. Quali ministeri sono stati visitati. Quali funzionari ha incontrato? A quale scopo?
Sovrapponendo varie fonti, si apprende che i libici si sono recati anche al ministero dell’Interno e presso quello della Giustizia. È da escludere che possa esservi stato un colloquio con gli allora ministri, ma perché mantenere ancora riservata l’esistenza di quei meeting e il loro contenuto?
Domanda 6. L’Italia poteva non sapere chi fosse Bija?
È stato sostenuto che all’epoca Milad, accusato da inchieste giornalistiche e report di organizzazioni umanitarie, non era perseguito da provvedimenti Onu. Eppure, solo pochi giorni prima della visita in Italia, il Centro alti studi del Ministero della Difesa lo indicava tra i capi del traffico di esseri umani coinvolto anche nel contrabbando di idrocarburi.
NELLO SCAVO