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      Home » Charlie mandato a morte a 10 mesi
      Editoriale

      Charlie mandato a morte a 10 mesi

      RedazioneDi RedazioneNessun commento3 minuti di lettura
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      Ci hanno detto in ogni modo che conta solo la volontà del paziente, o dei suoi genitori, se è troppo piccolo per poterla esprimere da sé. Ci hanno fatto credere che le determinazioni dei medici devono fermarsi un passo prima di quelle del malato o dei suoi tutori, e che è ora di dire basta col paternalismo medico. Ci hanno riempito la testa di autodeterminazione e dignità del paziente i cui desideri non possono essere coartati in alcun modo. Hanno però omesso di ricordare che tutti questi ragionamenti valgono solo in una direzione: quella della morte, chiesta o cercata, mentre se la volontà è di vivere, di lottare, di sperare, allora si comincia con i distinguo, l’appello al potere assoluto di medicina e scienza soppianta ogni altra considerazione, e si chiama accanimento quello che per i pazienti o chi li rappresenta è solo una ragionevole chance da tentare, fosse pure l’ultima, e anzi proprio per questo impossibile da ignorare. Il caso di Charlie Gard, il bambino inglese che con i suoi 10 mesi è probabilmente il più piccolo condannato a morte da una corte di giustizia, frantuma le ipocrisie, spazza via gli alibi, azzera i bizantinismi ideologici utili per asserire l’esistenza di un diritto di morire ma del tutto disarmati e afoni davanti alla disperata domanda di vita. È il sintomo ultimo di un’Europa che a forza di flirtare col nichilismo non sa più riconoscere la sete di vita, persino quando è gridata da due genitori col loro figlio stretto in braccio.

      La Corte europea che cento volte s’è sostituita agli Stati quando si trattava di concedere nuove libertà ora di colpo si ritrae sostenendo che non può prendere il posto delle competenti autorità nazionali, pronunciatesi compattamente per la morte del piccolo ritenendo la sua patologia senza possibilità di scampo (ma se così fosse, perché allora non lasciarle seguire il suo corso?). E l’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che tutela il «diritto al rispetto della vita privata e familiare», invocato infinite volte per farne il perno di sentenze che hanno legittimato quasi ogni possibile desiderio di matrimonio e filiazione, ora improvvisamente pare dimenticato. Per non parlare della libertà di scelta, che è l’architrave della legge italiana sul fine vita in cantiere ma che naturalmente nessuno ha osato evocare nel pubblico dibattito durante l’estenuante vertenza legale attorno al lettino di Charlie. Il diritto si rovescia così nella sua negazione radicale quando attacca la stessa condizione di ogni libertà, la vita stessa. Un cortocircuito culturale smascherato dalla realtà di una sentenza che decreta la morte anticipata di un bambino per volontà di uomini in camice o in toga. La tragedia di Charlie, che salvo colpi di scena pare ormai inevitabile, segna un punto di svolta per la storia di un continente che implode per effetto della crisi demografica ma che da oggi scopre di saper arrivare sino al limite sinora inimmaginabile di mandare a morte uno dei suoi figli più fragili.

      Francesco Ognibene

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