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      Suor Francesca, un seme di speranza

      RedazioneDi RedazioneNessun commento4 minuti di lettura
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      Il delta del Niger con i suoi settantamila chilometri quadrati è una delle più vaste aree fluviali al mondo ed è anche la più ricca regione petrolifera dell’Africa. Da mezzo secolo, secondo la denuncia delle organizzazioni non governative, multinazionali dell’oro nero si sono accaparrate le concessioni per lo sfruttamento del sottosuolo, grazie ai vari governi militari che, negli anni, hanno svenduto il Paese. Oggi l’intero bacino idrico risulta in larga parte devastato con gravissimi danni per la salute della popolazione ridotta ad una condizione quasi disumana. L’acqua è contaminata da benzene ed altri idrocarburi. Nel 2011 una ricerca dell’Onu ha messo in luce un livello d’inquinamento fuori controllo con danni incalcolabili a causa dei ripetuti sversamenti di greggio e dei frequenti incendi che hanno compromesso anche la qualità dell’aria. Da allora quasi nulla è cambiato e questa parte del mondo sembra dimenticata dai mass media. Ed è anche in nome della nostra benzina che molte persone fuggono per raggiungere l’Europa «perché – dicono – è molto meglio il carcere in Italia che sopravvivere qui».

      A dare voce alla disperazione di questa gente è Francesca Federici, nativa di Pesaro ma da 22 anni residente in Africa. Attualmente è l’unica suora bianca tra tutte le clarisse di clausura della Nigeria. Da pochi mesi il vescovo di Bomadi – una diocesi enorme che si estende sugli stati di Bayelsa, Rivers e Delta – le ha chiesto di costruire un monastero nello sperduto villaggio di Ogriagbene, proprio sulle rive del martoriato Niger. Sembra paradossale ma qui, nonostante la ricchezza dei giacimenti energetici del sottosuolo, gli abitanti vivono senza elettricità e non hanno ospedali né banche. Esiste una chiesetta cattolica formata da una tettoia di lamiera sorretta da quattro pali; a terra il pavimento è fatto di sabbia e, nella stagione delle piogge, i piedi sprofondano nella melma. Il prete ha realizzato anche un piccolo ambulatorio ma «il medico si vede una volta al mese – spiega suor Francesca – e così la gente si cura con i metodi naturali e le erbe». La retta per frequentare la piccola scuola parrocchiale ammonta a soli 2 euro a trimestre ma quasi nessuna famiglia può permetterseli. «E pensare che nel villaggio – prosegue – è nato un senatore del governo federale che però ha pensato solo ad accumulare milioni di dollari, lasciando la sua gente nella miseria, pescatori che oggi convivono con un fiume quasi del tutto inquinato». Il petrolio di fatto viene rubato dalla terra di questa gente senza neppure essere raffinato qui, dove è difficile trovare benzina perché una volta estratto, l’oro nero viene subito trasportato verso Port Harcourt, capitale economica del delta del Niger, per essere stoccato sulle petroliere che fanno la spola verso i paesi delle multinazionali.

      «Tutti i giorni – racconta suor Francesca – dalle 11 alle 15, passano sul fiume, sotto i nostri occhi, enormi barconi carichi di petrolio, accompagnati da imponenti scorte armate di uomini perché il Paese vive nell’illegalità. È una vera e propria ingiustizia perché da noi la gente è semplice ed hanno rubato loro non solo le risorse ma anche la dignità di un popolo che da sempre si sente orgoglioso e onnipotente. Oggi hanno perso anche la voglia di protestare perché rischiano di essere uccisi». Ogriagbene è solo uno dei 40 villaggi della regione, collegati tra loro dalle canoe. In molti hanno smesso persino di coltivare la terra e al mercato gli unici alimenti rimasti sono un po’ di pesce, cipolle e pepe. In attesa di completare i lavori del convento, suor Francesca vive insieme ad altre tre consorelle nigeriane in una casa presa in affitto da una famiglia del posto.«Noi siamo monache di clausura – conclude suor Francesca – quindi la nostra missione principale è la preghiera ma la gente ogni giorno viene a casa nostra, ci portano i bambini per avere un po’ di istruzione e qualche conforto perché, nonostante tutto, questo monastero, che ancora stiamo costruendo, rappresenta un piccolo seme di speranza».

      Roberto Mazzoli

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