
Sul Nuovo Amico della scorsa settimana abbiamo dedicato tre pagine intere ai pellegrinaggi diocesani compiuti in Terrasanta durante le festività natalizie. Nello stesso periodo (dal 12 al 19 dicembre) un piccolissimo gruppo di italiani si è recato in Iraq, sulle strade di Abramo. Tra loro c’era anche don Marco Di Giorgio, parroco della parrocchia di S. Luigi di Pesaro e direttore della Caritas diocesana. Un viaggio definito dall’Opera Romana Pellegrinaggi come “gesto profetico” in una terra martoriata dalla violenza. Nella sola capitale, in soli otto mesi, ci sono stati settemila morti. Un paradosso se si pensa che Baghdad letteralmente significa «città della pace». L’Iraq è un Paese musulmano a maggioranza sciita, con una significativa presenza anche sunnita, accanto alle quali è presente una radicata minoranza cristiana, soprattutto cattolica ma vi sono anche ortodossi ed evangelici.
Allora don Marco, perdona la franchezza, ma come ti è venuto in mente di andare in Iraq?
Verso i primi di dicembre mi arriva, inattesa, una telefonata da Mons. Liberio Andreatta, il “capo” dell’Opera Romana Pellegrinaggi, che mi invita a partecipare al “gesto profetico” del pellegrinaggio in Iraq e mi dà solo un giorno per decidere… Si combatte tra la paura del viaggio pericoloso e il desiderio di andare sui luoghi di Abramo. Devo decidere e mi lancio: faremo il viaggio da “pellegrini di pace”, portando una reliquia di Giovanni Paolo II, la sua veste intrisa del sangue dell’attentato del 13 maggio 1981. Il Papa aveva tanto desiderato compiere questo viaggio, ma le condizioni politiche prima e la sua salute poi, glielo impedirono. Allora, così ci siamo detti, se non l’ha fatto da vivo, lo farà da santo! E siamo partiti in 22: sette preti, sette giornalisti di varie testate nazionali (fra cui Corsera, Panorama, Avvenire, TV2000, Famiglia Cristiana ndr), un archeologo, un’impiegata dell’Opera, l’interprete e 5 membri di una ONG che lavora da anni in Iraq e che ha curato la parte logistica.
Come siete stati accolti?
Siamo stati accolti ovunque con molto calore, sempre scortati da due camionette di soldati che vegliavano sulla nostra sicurezza. Inoltre è stato con noi tutta la settimana, Mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del Patriarca Caldeo cattolico di Bagdag, Rafael I Sako. Mons. Warduni è stato molto affettuoso con noi. E’ conosciuto anche a Pesaro dai sacerdoti del Movimento dei Focolari.
Qual è l’attuale a situazione sociale in Iraq?
Lo stato è profondamente diviso. Il sud, la regione di Ur, Bassora, Nasiriyah, è tranquilla governata dagli Sciiti; il centro, la regione di Baghdad è invece molto instabile: si lotta tra Sciiti e Sunniti e forse anche con movimenti fondamentalisti esterni, provenienti da Siria ed Emirati per il controllo della regione, che alcuni vorrebbero unire alla “Grande Siria”, rinnovando il califfato, cioè costruendo un Califfato del Levante. Infine c’è il nord che è in mano ai Curdi. La vicinanza delle elezioni, in aprile, non fa che accrescere le tensioni. Baghdad è una città blindata, con muraglioni in cemento alti sei metri intorno a hotel, palazzi amministrativi, chiese, moschee ecc. con soldati ovunque. Le autobombe non perdonano e nel 2013 in Iraq sono morte 7.000 persone in attentati: una strage di cui poco parlano i media…
Siete anche entrati nella chiesa di S. Maria del perpetuo Soccorso, dove furono uccisi 47 fedeli durante la Messa domenicale: che effetto vi ha fatto?
Certamente è stato uno dei momenti più commoventi del pellegrinaggio. Siamo andati da tutte e quattro le comunità cattoliche presenti a Baghdad: gli Armeni, i Latini (cioè “noi”!), i Caldei e i Siriaci. Proprio nella loro chiesa quattro anni fa, accadde il massacro: due terroristi entrano nella Messa vespertina domenicale e iniziano a sparare all’impazzata. 47 persone, tra cui i due sacerdoti presenti, uno diceva Messa e l’altro confessava, e due bambini di tre mesi e tre anni, restano a terra. Gli altri si barricano in sacrestia. La polizia arriva e si innesca un assedio di quattro ore. Poi i terroristi si fanno saltare in aria: una carneficina. Ora la chiesa è stata restaurata a spese dello Stato e hanno messo 47 stelle sulla facciata e nelle vetrate: “Sono le nostre stelle, i nostri santi che ci proteggono dal cielo”, ci ha detto don Aysar Saeed, il nuovo parroco. Poi ci ha mostrato la sala dove hanno raccolto le reliquie: vesti liturgiche insanguinate, un libretto dei canti con un proiettile in mezzo, la tastiera dell’organo sporca di sangue … e poi ci ha condotto nella cripta dove sono sepolti tutti insieme, sotto la chiesa, intorno ai due sacerdoti. E’ stato un momento molto toccante: essere cristiani qui, non è facile!
Ecco, a questo proposito, quale messaggio avete raccolto per noi cristiani d’occidente?
Be’ certo, in Iraq, non puoi essere un “cristiano da salotto”, come dice Papa Francesco. Molti di loro sono fuggiti in America o Australia: in dieci anni da più di un milione, son rimasti 450.000. Però li abbiamo sentiti molto orgogliosi della loro storia: “Siamo qui da sempre, non ci scacceranno”, ci ha detto Mons. Warduni. In effetti la chiesa in Assiria, risale ai tempi dell’apostolo Tommaso. Anche la convivenza con i musulmani è un dato antico: “Viviamo insieme da 1400 anni –dice sempre Mons. Warduni- non riusciranno a dividerci”. In effetti, nei tanti incontri con le autorità religiose sciite, abbiamo sentito molto rispetto e stima per i cristiani e molta voglia di concordia e aiuto reciproco. Intanto il 25 dicembre è stato da poco proclamato festa nazionale, proprio come omaggio ai cristiani.
E quindi i rapporti con l’Islam sono buoni?
Da quello che abbiamo visto, ci sono apparsi molto buoni, al di là di schematismi e pregiudizi. Abbiamo partecipato, almeno per un piccolo pezzo, all’enorme pellegrinaggio che si svolge ogni anno ai due santuari fondamentali per gli Sciiti: nelle città di Najàf e Kàrbala. Siamo stati nel primo, immersi nel mare di folla che cammina per giorni e giorni: sono più di dodici milioni i pellegrini, provenienti non solo dall’Iraq (per fare un paragone: a Lourdes sono sette…). E là abbiamo ascoltato, come già a Ur, parole di fraternità, di rispetto e di voglia di camminare insieme: “L’Iraq non appartiene a una religione, appartiene al popolo iraqeno di cui i cristiani sono parte integrante da sempre. A loro deve essere riconosciuta piena cittadinanza e l’emigrazione che colpisce la loro comunità è una perdita secca per tutta la nazione”, ci ha detto il responsabile della moschea.
Parliamo un po’ di Abramo…
Andare a Ur era uno degli scopi principali del pellegrinaggio, anche per vedere se si potrà riaprire una nuova via anche per i pellegrini. Il sito è magnifico, con una grande “ziqqurat”, le enormi piramidi costruite già dai Sumeri. Abbiamo celebrato la Messa alla cosiddetta “Casa di Abramo”, ricordando che tutto da lì è iniziato, quando, più di 4.000 anni fa, Abramo partì seguendo la chiamata di Dio. E le tre grandi religioni monoteistiche, in modi diversi, lo riconoscono come il loro padre. Davvero in Abramo, e nella sua fede, possiamo ritrovare la nostra radice comune per un cammino insieme…
L’intervista finisce qui per motivi di spazio ma immagino che ci sarebbe ancora tanto da dire …
Sicuramente. Per questo giovedì 23 gennaio alle 21.15 presso la sala della comunità della parrocchia di San Luigi, cercherò di raccontare e mostrare un po’ di foto dell’esperienza. Il pellegrinaggio non delude mai!
A cura di Roberto Mazzoli