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      Home » Giornata per le vittime degli abusi – Le relazioni che curano
      Editoriale

      Giornata per le vittime degli abusi – Le relazioni che curano

      FILIPPO MONDINI*Di FILIPPO MONDINI*Nessun commento4 minuti di lettura
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      “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”. Partendo da queste parole di San Paolo, Papa Francesco delinea il suo programma pastorale per lavorare sulle ferite e le sofferenze causate dagli abusi sessuali, di potere e di coscienza sui minori. Una lettera ad ampio respiro che non può rimanere al chiuso delle sagrestie ma che andrebbe “gridata dai tetti” delle città perché coinvolge tutte le persone che hanno a cuore la vita dei più deboli. Il primo aspetto che colpisce è la centralità della responsabilità di ogni battezzato: “è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno…”. Ogni battezzato è chiamato a farsi carico del dolore dei fratelli e sorelle colpite nella carne e nello spirito. Ancor di più il Papa afferma che la solidarietà esige di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona.

      Papa Francesco va al cuore del problema proponendo una prassi: la consapevolezza è solo il primo passo e a questa deve seguire una responsabilità. Di conseguenza un verbo fondamentale diventa “vedere”. Vedere non in senso di ricerca paranoica di tracce o indizi ma vedere l’altro e in virtù di questo vedere, farsi vicino all’altro. Vedere vuole dire costruire una società, una comunità della Cura. Vedere quindi mette in moto un dinamismo teso a sviluppare le risorse delle persone, passare da spettatore passivo ed inesperto a corresponsabile e attore principale. Papa Francesco non vuole delegare la piaga degli abusi ad un manipolo di esperti ma chiama tutti a diventare adulti responsabili capaci di prendersi cura degli altri e di sé. Se ci si rinchiude nell’ambito professionale come una corazza non si è efficaci. “Clinico” porta in sé il greco: “Cline”: Letto. Il clinico è colui che visita l’ammalato a letto, va verso di lui. Non l’uomo eretto ma quello rivolto all’altro sarà capace di portare la Cura.

      Il secondo aspetto che colpisce è l’individuazione del clericalismo come una delle cause principali degli abusi. Per Francesco il clericalismo non è solo una questione privata di preti e religiosi ma coinvolge tutti i battezzati. Tutti corrono il rischio di “ridurre il Popolo di Dio a piccole elites senza vita”. Nel mondo del clericalismo la religione non aiuta a diventare umani ma al contrario produce una scissione dalla parte più vera di sé, sostituendola con norme, obblighi morali, sanzioni e burocrazia. La religione diventa potere dove sarà abbastanza naturale manipolare gli altri per finalità e bisogni distorti. Il clericalismo si fonda su una religione centrata sul dominio e sulla proprietà anche di beni non materiali (le altre persone, la conoscenza…). Si basa su rapporti di aggressione, esclusione degli altri, alimenta avidità, inimicizia e violenza.

      Per evitare che gli abusi si possano ripetere, il programma di Francesco è radicalmente semplice: umanizzare le relazioni: non c’è prevenzione e cura senza una “dinamica popolare” fatta di umanità e relazioni. Ma che cosa vuole dire in concreto?

      –           Non lasciare i Preti da soli: spesso si fa fatica a vedere l’umanità dei consacrati. Il prete è un uomo con la sua vita interiore, emozioni, fatiche…. Tutto questo è un mondo che va accolto.

      –           Assumere come progetto di vita quello di scoprire chi si è davvero. Chi sei è una cosa che si scopre dentro, nessuno può sostituirsi a questa ricerca.

      –           Riconoscere le relazioni sbagliate, quelle cioè dove amo solo me; amo solo gli altri; amo gli altri cercando un modo per amare me stesso.

      –           Riconoscere che in principio è la relazione ma che la relazione adulta parte dal riconoscimento che io compio verso me stesso. Frantz Fanon afferma: “Tutti i problemi che l’uomo pone su sé stesso sono riconducibili a quest’unica domanda: non ho contribuito attraverso i miei atti o le mie omissioni, a una svalorizzazione della realtà umana? Ho reclamato, ho preteso, in ogni circostanza l’uomo che è in me?”

      –           Costruire comunità dove è possibile vivere il proprio mondo emotivo, dove avere paura, essere triste o arrabbiato, non è un tabù ma semplicemente un modo di esprimere e vivere la propria umanità.

      In conclusione per sradicare la “cultura di morte” le comunità dovrebbero assumersi il rischio di formare adulti maturi e non bambini capaci solo di eseguire senza riflettere sulla propria fede.  Aiutare le persone a capire in che Dio si crede. Questa domanda è fondamentale perché ognuno diventa l’immagine del Dio che adora: Chi venera una cosa morta diventa una cosa morta.

      Nella verità dell’umanità e delle relazioni ci sarà certezza della cura.

      * Psicologo Psicoterapeuta di Pesaro

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