
“Grazie al vaticanista Fabio Zavattaro e ai caporedattori delle testate giornalistiche locali – Silvia Sinibaldi, Franco Elisei, Luigi Luminati, Roberto Mazzoli – perché con professionalità e stile ci hanno presentato il loro mestiere ‘di frontiera’, evidenziandone la ricchezza e la complessità. Ci hanno quasi condotto dentro la redazione, immergendoci nelle difficoltà che la parola incontra sia nel leggere e comunicare la realtà sia nel rapportarsi al silenzio”.
Con queste parole il prof. Paolo Boni, il 31 maggio scorso a Palazzo Antaldi, ha chiuso l’incontro organizzato dall’Ufficio delle Comunicazioni Sociali della nostra Arcidiocesi, in collaborazione con l’UCSI Marche, per celebrare la 46° Giornata Mondiale delle Comunicazioni. Nell’incontro, presieduto da S. E. Mons. Piero Coccia, tutti i relatori si sono confrontati – da cattolici e non – sul Messaggio del Papa Benedetto XVI intitolato “Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione”.
La funzione comunicativa
Sostanzialmente concordi, i giornalisti, sulla funzione “comunicativa” che il Pontefice, con innegabile originalità, attribuisce al silenzio: un termine che, come ha sottolineato l’Arcivescovo, non contraddice affatto la parola, ma la completa, interagendo con essa in un unico “ecosistema”.
Silenzio significa innanzitutto “capacità di ascoltare” e quindi di “comprendere le esigenze principali del territorio, di scegliere la notizia che possa coinvolgere e interessare il maggior numero di persone” (Sinibaldi).
Significa anche “capacità di riflettere” e cioè “di elaborare, interpretare, individuare le sfumature trasformandole in sostanza” (Eusebi) oppure “capacità di approfondire”, “il che rende il giornalismo molto più ricco di tutti gli altri mezzi di informazione” (Luminati).
Può significare anche “dare voce a chi normalmente è condannato al silenzio, come ha fatto “Il Nuovo Amico” raccontando le storie dei barboni della nostra città e come farà prossimamente con un progetto di giornalismo in carcere” (Mazzoli).
Il silenzio è stato dunque da tutti riconosciuto come “una dimensione profonda della nostra esistenza, uno spazio in cui si costruisce la nostra interiorità, una condizione indispensabile per entrare in dialogo con gli altri” (Zavattaro).
Educazione e verità nei mass-media
Più sfumate e problematiche, invece, le altre due questioni sollevate: il rapporto dei giornalisti con la verità e il ruolo educativo della carta stampata.
Provocatorio in questo senso è stato l’intervento di Luminati, il quale, dopo aver messo in luce l’overdose di informazioni che oggi inquina il sistema comunicativo, ha affermato che “non si deve cercare la verità nei giornali” perché “l’unica verità possibile è quella della fede” (per chi ce l’ha) e che “la funzione educativa del giornalismo è molto dubbia”.
Lo stesso Luminati, però, ha aggiunto che, sebbene il giornalista non comunichi la verità dei fatti, ma solo un’interpretazione degli stessi, lo deve fare tuttavia con “il massimo della buona fede, il massimo della preparazione, il massimo dell’attenzione possibile a quello che c’è dietro”.
E’ stato chiaro, a questo punto, che la “verità” con cui hanno a che fare i mezzi di comunicazione non è la verità “metafisica” (alla quale peraltro neppure i cattolici sono interessati in via prioritaria), ma la verità “storica”, dei fatti che accadono.
Il problema da chiarire però (perché la risposta non è affatto scontata per la mentalità corrente) è : esistono i fatti o esiste solo l’interpretazione dei fatti? Esiste cioè una “verità intrinseca” agli avvenimenti, una verità che “precede” il giornalista e che il giornalista, proprio perché non la possiede, deve ricercare con apertura e serietà di impegno? Oppure il lettore si deve rassegnare alla parzialità, spesso pregiudiziale, delle opinioni?
“Credo fermamente che ogni giornalista possa avere un suo rapporto con la verità – ha detto Silvia Sinibaldi – nel momento in cui si impegna a non utilizzare le notizie, a volte persino falsificandole, per perseguire i propri obiettivi. Tant’è vero che, quando si compiono degli errori, non sempre per cattiva volontà o pregiudizio, ma per i tempi celerissimi in cui si lavora, si rischia la propria credibilità e si è “puniti” con la sfiducia dei lettori”.
“Per il giornalista del resto – ha precisato Elisei – interpretare significa avere un approccio critico agli avvenimenti, non accontentarsi delle apparenze, offrire degli strumenti per accrescere la consapevolezza. Anche l’Ordinamento della nostra categoria sottolinea, insieme al diritto alla libertà di informazione, il dovere inderogabile di rispettare la verità sostanziale dei fatti con lealtà e buona fede”.
Quanto poi alla domanda se i mezzi di comunicazione abbiano un ruolo educativo, è emerso, pur nella cautela dei relatori, un giudizio implicitamente concorde: essere “cercatori di verità” non fluttuanti e superficiali; aiutare a capire meglio il significato di ciò che accade ; impegnarsi a non manipolare la realtà a propri fini e a non ingannare volutamente i lettori ; rispettare le regole etiche previste dal proprio codice deontologico sono, in fondo, non solo la responsabilità e la forza di chi fa il “mestiere” del giornalista, ma anche la sua peculiare ed incisiva modalità di educare.
Paola Campanini