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      Home » Ravasi a Pesaro «La cultura rischia di svuotarsi di umanità»
      Pesaro

      Ravasi a Pesaro «La cultura rischia di svuotarsi di umanità»

      RedazioneDi RedazioneNessun commento4 minuti di lettura
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      038646 Relazione di S.E. Card. G. Ravasi

      Molto lucida – ma non proprio “elementare” come il Cardinale Gianfranco Ravasi l’aveva annunciata – la relazione da lui tenuta venerdì 26 aprile in una Cattedrale che a stento riusciva a contenere i convenuti, tra cui anche il Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. E certo elementare non poteva essere, considerata la complessità dei contenuti affrontati ed anche la tensione costante del relatore a “tenere insieme” i significati delle tre parole tematiche – fede, cultura, società – a coglierne le relazioni, a individuarne l’alveo comune.
      L’incontro è stato contestualizzato dall’Arcivescovo Piero Coccia, che ha presentato l’illustre e stimatissimo ospite, all’interno dell’iniziativa “In dialogo con la città”, promossa ormai da anni dal diocesano Istituto Superiore di Scienze Religiose.
      Una società (si potrebbe dire con una sintesi “a ritroso” del percorso compiuto dal Cardinale Ravasi) per vivere armonicamente richiede una politica che “dia la precedenza alla morale” (Kant) e un’economia “non separata dall’etica” (Amartya K. Sen).
      Ma la morale, a sua volta, implica non solo una “deontologia” (l’indicazione di norme di comportamento), ma anche una ”ontologia” (una base solida che permetta di giustificare tali norme e di fondarne il valore permanente). La morale pertanto è strettamente legata alla verità, la cui ricerca è l’obiettivo primo della cultura, chiamata a proiettarsi continuamente in avanti, tenendo però vivo il ricordo delle proprie radici. Fin qui, si potrebbe dire, il “dover essere”.
      Ma qual è il grande problema di oggi?
      Che tutto sembra andare nella direzione opposta. La politica e l’economia “non vogliono inoltrarsi nel terreno, che dovrebbe essere loro proprio, della filosofia morale” (Amartya K. Sen).
      La morale, d’altro canto, è estremamente fluida e nebulosa, perché è legata a una verità non più riconosciuta come oggettiva, ma come relativa alle circostanze e ai contesti e quindi continuamente mutevole: oggi si ritiene che la norma, come diceva Hobbes, non sia più dettata dalla “veritas”, ma dalla “auctoritas” dello Stato e che pertanto sia una semplice “convenzione”, destinata a cadere col mutare dei tempi.
      La cultura, infine, è malata di “smemoratezza” e, protesa com’è a svilupparsi nel campo della scienza e della tecnologia, rischia di svuotarsi di umanità. Sembrano profetiche le parole di Bernanos, quando scriveva che “una civiltà non crolla come un edificio, ma si svuota a poco a poco della sua sostanza, finché non ne resta che la scorza”.
      In tutto questo i cristiani che ruolo hanno? Come può la loro fede illuminare la cultura e la società?
      Non bisogna dimenticare, innanzitutto, ha detto il Cardinale, che il cristianesimo è “incarnazione” e suppone un’attenzione al corpo, alla carne, alla storia. “I santi cristiani, scriveva Chesterton, sono sempre raffigurati con gli occhi aperti sul mondo”. Interessarsi dunque alla cultura e alla società è fondamentale non solo dal punto di vista umano, ma anche da quello religioso.
      In particolare, sul piano della cultura, occorre – soprattutto nella scuola! – ricordare, cioè “riportare al cuore”, le radici cristiane della civiltà europea e occidentale, dando loro calore e vitalità, perché hanno impregnato di sé (insieme certo al patrimonio classico e illuministico) la letteratura, l’arte, il diritto, la morale dell’Europa: “Il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà” (Kant).
      Sul piano sociale, e quindi politico, occorre contrastare decisamente non solo ogni tentazione “teocratica” (interferenza della Chiesa sul legittimo agire dello Stato) ma anche ogni forma assoluta di secolarizzazione (interferenza dello Stato sull’autonomia della coscienza), perché, se è vero che la politica ha una sua autonomia (“date a Cesare quello che è di Cesare”) è anche vero che “bisogna dare a Dio quello che è di Dio”: lo Stato cioè non può “normare” in maniera definitiva e assoluta tutto ciò che riguarda la persona, perché la persona appartiene a Dio e ha una dimensione trascendente.
      Un sintomo di tale dimensione è proprio l’esigenza (comune a tutti gli uomini nonostante i tradimenti) di immettere nella società i valori morali della solidarietà e dell’amore: sintomo, appunto, che la coscienza umana è fatta “a immagine” di un Creatore rivelatosi nella sua essenza come Amore.
      Paola Campanini

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