L’Intelligenza artificiale rende più sapienti? Permette di conoscere meglio se stessi? Accresce il senso di fraternità tra le persone? Alimenta quella tensione all’infinito che è propria della natura umana?
Interrogativi emersi, tra i tanti, nei tre incontri che la Comunità Monastica Bet’el di Pesaro ha promosso lo scorso luglio sul tema “L’intelligenza non è artificiale”, sviluppato da autorevoli relatori quali Margherita Daverio, ricercatrice di Filosofia del diritto alla LUMSA; Luigi Alici, professore emerito in Filosofia Morale presso l’Università di Macerata; dom Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte.
L’approccio all’I.A. – è stato detto in premessa da tutti – deve essere cordiale, non pregiudiziale. Soprattutto l’approccio dei credenti, per i quali i progressi nella scienza e nella tecnologia fanno parte del mandato che Dio ha affidato all’uomo di esercitare la sua signoria sulla terra, custodendola e perfezionandola.
Da sottoporre a critica, invece, è la convinzione di molti ricercatori che l’I.A. sia in grado non solo di svolgere qualsiasi lavoro alla portata della mente umana (con tutte le conseguenze che ne deriverebbero), ma addirittura di oltrepassare le capacità intellettuali dell’uomo.
Tale convinzione non tiene presente che l’intelligenza naturale si differenzia profondamente da quella artificiale, perché tende strutturalmente a conoscere la realtà in tutte le sue dimensioni.
In “profondità”, in quanto permette all’uomo di essere cosciente di sé, di scoprire i propri limiti e nello stesso tempo le proprie potenzialità, la propria “natura spirituale”, che si manifesta attraverso l’arte, la musica, la contemplazione della natura e tanto altro.
In “estensione”, in quanto riconosce come fondamentale per la costruzione della persona il valore delle relazioni umane, del dialogo, della gratuità, dell’amore, della vicinanza a chi soffre.
In “verticalità”, perché si pone la domanda sul destino ultimo dell’essere, sente l’esigenza della Verità e non cessa di addentrarsi in essa, anche se riesce a conoscerla solo parzialmente.
L’intelligenza umana, perciò, non è una facoltà isolata, ma è parte integrante del modo in cui tutta la persona si coinvolge a livello cognitivo, relazionale, spirituale.
Difronte alla complessità e alla ricchezza dell’intelligenza naturale, le pur straordinarie capacità dell’intelligenza artificiale appaiono ridotte: l’I.A. è estremamente funzionale ed efficace nell’offrire prestazioni, ma non è cosciente di ciò che opera; crea connessioni, ma non relazioni e rapporti di amicizia, che presuppongono una cosciente reciprocità; collega e ordina una mole enorme di dati, ma non è capace di discernimento morale, non si interroga sui significati, non ricerca gli scopi.
La tecnologia, come affermava il filosofo tedesco Hans Jonas, ci fa raggiungere “il massimo di potere intorno ai mezzi, ma il minimo di sapere intorno agli scopi”.
Pienamente giustificata, perciò, risulta la provocazione con cui Papa Francesco, il 22 giugno 2024, concluse il suo Discorso alla Fondazione “Centesimus Annus”: “Siamo sicuri di voler continuare a chiamare ‘intelligenza’ ciò che intelligenza non è?”.