Lo scorso 4 maggio la Consulta delle aggregazioni laicali della Arcidiocesi di Pesaro, insieme ad alcune associazioni – AMCI, Scienza&Vita, CAV – ha proposto alla città una riflessione pubblica sul tema “Vita da sostenere o morte assistita? Una lettura critica della legge 219/2017 sul biotestamento”. Introdotto da una breve riflessione dell’Arcivescovo Piero Coccia, è intervenuto il prof. Gianluigi Gigli, ordinario di Neurologia all’Università di Udine, del cui ampio curriculum ricordiamo qui soltanto il suo impegno fino allo scorso marzo come presidente del Movimento per la Vita Italiano e come deputato.
Legge. Nel ripercorrere l’iter parlamentare della legge, Gigli ha ricordato che la legge contiene certamente alcuni aspetti positivi: il tema consenso informato e consapevole, quello della terapia e del controllo del dolore, la pianificazione condivisa delle cure, la valorizzazione della relazione di cura tra medico, familiari e paziente. Ma c’era davvero bisogno di fare una legge per tutto questo? Infatti il consenso informato è già buona pratica nella attività sanitaria, e nel caso di abusi ci sono le tutele giudiziarie ordinarie, il tema della terapia del dolore e le cure palliative sono già previste da un’ottima legge (n. 38/2010) che semmai andrebbe potenziata e riempita di contenuti, e la pianificazione delle cure si sarebbe potuta introdurre mediante atti di indirizzo. Perché allora si è voluta questa legge lacerando profondamente la professione medica?
Giudizio. Il giudizio sulla legge è e resta decisamente negativo, perché si è voluto affermare il principio di autodeterminazione dando ad esso valore assoluto ed attribuendogli una valenza universalistica. Per far ciò si sono introdotti nella legge aspetti estremamente problematici, giungendo a definire per legge che cosa è un tipo di cura e ad attribuire, ad esempio, valore di trattamento sanitario a ciò che la famiglia dà al paziente in casa per nutrirlo, introducendo il tema della sedazione profonda, con la quale si rischia di coprire la disumanità di una scelta che permette di sdoganare di fatto il diritto al suicidio. Non solo: se è vero che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia o alle buone pratiche clinico-assistenziali”, potrebbe accadere che una società scientifica decida che mantenere in vita un paziente in stato vegetativo significhi accanimento terapeutico, e così qualcuno – famiglia o fiduciario del paziente – potrebbero decidere di non continuare le cure. Il rischio principale è che in questo modo il medico venga trasformato in mero esecutore della volontà del paziente, perdendo la parte più sacra della sua professione, quella di essere accanto al paziente per curare, guarire, alleviare, e non per aiutarlo a morire.
Obiezione. Altro e grave elemento sottoposto a critica dal prof. Gigli è la assenza della possibilità per il medico di ricorrere all’obiezione di coscienza. La libertà di coscienza – principio di rango costituzionale – non viene qui nemmeno contemplata, attribuendo alla volontà del paziente un carattere imperativo e cogente assoluto, cui il medico non si può sottrarre. Ci aspettano tempi difficili, e non sarà facile cambiare una legge che è stata approvata – come altre nella passata legislatura – in maniera affrettata e senza discussione reale. Ma in primo luogo sarà necessario trovare lo spazio per introdurre l’obiezione di coscienza quale spazio di libertà del medico, almeno di pari dignità rispetto alla rivendicata libertà del paziente.