Don Piero Pellegrini
Don Donato sei davanti ad un altare. Tu sei stato costantemente sull’altare del sacrificio, della sofferenza: dal dono del rene per il fratello, all’intervento al cuore del 1996, alla leucemia che ti ha rapito ai nostri occhi. Ti abbiamo più volte incontrato all’ospedale di Bologna, amabilmente assistito dalle sorelle Ennia e Vilma. Nelle “interviste” che ti abbiamo fatto e pubblicate, allora, nel Nuovo Amico, ci è sembrato di entrare nel sacrario della tua fede e nel tuo amore di Pastore Sposo, in ansia per il tuo gregge amato ma lontano Le ultime tue parole nel letto all’ospedale S. Orsola di Bologna, in risposta alle mie “Le vogliamo tutti un gran bene”: “Anch’io, anch’io, anch’io!”, hai sussurrato con un filo di voce e con il sorriso di un padre che saluta i suoi figli con un amore che durerà per sempre.
E poi le sofferenze di tutti vissute come tue, e le tue passioni dolorose che si alimentavano con le incomprensioni raccolte all’interno della Chiesa stessa, con i caratteri non facili delle persone, con le osservazioni a volte pesanti circa situazioni difficili da gestire. Don Donato parlavi spesso della sofferenza come vocazione ad amare di più. Tu stesso confidavi nell’ospedale di Bologna: “Ho detto in confidenza a più di uno: “State attenti a parlare della sofferenza se non l’avete provata, perché Dio poi dice : -Voglio vedere se tu l’accetti, se te ne fai una vocazione!”. La sofferenza è una vocazione, come ho detto più volte, molto difficile. Lo confermo ora, perché stando male fa un altro effetto, è molto diverso anche perché avverti i limiti, avverti le problematiche, avverti la pochezza, avverti il timore, avverti che le forze vengono meno, avverti il bisogno degli altri: insomma umanamente è più dura di quel che sembri! Certo, un dolore trasformato in amore: questo è il segreto. Un dolore in cui dentro – con frase grossa e antica – scende lo Spirito Santo come un fuoco, che trasforma la nostra miseria e povertà in un atto di amore e un’offerta a Dio”.
Mauro Marani
C’è una foto che ritrae mio zio Don Donato, mia sorella Mara in braccio alla mamma Ennia e Martelli, il padre di Pipo Martelli del Buglione; ridono davanti alla macchina fotografica, sullo sfondo si vede la trebbia della battitura del grano in una calda giornata di luglio (1949?)
Martelli era un uomo giusto, era un uomo di pace che metteva d’accordo i litiganti, consigliava chi aveva dei dubbi ed aveva una rara lungimiranza. Aveva a cuore soprattutto le sorti della gente dei dintorni.
La vita di un giusto. Anche don Donato era un giusto. Da un canto lasciava briglia libera allo stupore per la neve, i pesci del fiume, una mattinata tersa. Ce lo ricordiamo seduto su una genga del fiume Marecchia mentre dava dei pezzettini di formaggio ai barbi e alle lasche. Ma poi quanta riflessiva passione ci metteva ad ascoltare, consigliare, condividere con le persone, scelte di vita! Quante volte lo abbiamo sentito rispondere ad una nostra lamentosa rimostranza per chi ci aveva fatto dei torti: “Diamogli un’altra possibilità, diamogli un’altra possibilità”. Che voleva dire: mettiamolo in condizioni di recuperare, di avvicinarsi un po’ di più a noi. Forse non dobbiamo sentirci fortunati e privilegiati di aver conosciuto un uomo buono e giusto come Don Donato?