Le figlie ci regalano un buono per una degustazione di pesce in un noto ristorante cittadino (forse non siamo stati dei cattivi genitori) e con mia moglie prenotiamo per pranzo. Ambiente semplice ma raffinato, musica di sottofondo appena udibile, manca la tovaglia, si viene serviti su un tavolo di legno, appoggia-posate e porta-pane in maiolica. Ci portano in una tazza una cucchiaiatina di crema di verdure ed il cameriere ci descrive accuratamente gli ingredienti. Buonissimo, ma la quantità è appena da assaggio. Mi trattengo dal dire: “ottimo può servirla”. Non voglio fare la figura di chi è abituato a tagliatelle e arrosto misto. Il cameriere ci chiede se abbiamo intolleranze alimentari e se gradiamo il pesce crudo. Anche in questo caso mi trattengo dal dire che io il pesce crudo lo do al gatto. Lo sussurro a mia moglie che mi guarda male e fa cenno di stare zitto. Arriva anche la carta dei vini ed osservo esterrefatto i prezzi.
Roba da sceicchi petrolieri anzi questi, per motivi religiosi, non bevono alcolici. Il vino che abbiamo scelto, un bianchello del Metauro, il meno costoso (in enoteca 5 – 6 euro la bottiglia) viene quotato a 19 euro. Con molta calma, come se dovessimo prima digerire arrivano altri piccoli assaggi (sei in totale). Chiedo al cameriere, ma forse è meglio chiamarlo ‘chef de rang’ se è possibile accelerare il servizio, mi risponde che è preferibile che attenda il cliente piuttosto che il cibo arrivi freddo o scotto. Forse ha ragione. Il massimo viene raggiunto quando arriva mezza triglia di scoglio, una sola per due persone, con un’ottima salsa. A quel punto sbarazzano il tavolo e servono dolce e caffè. Totale 45 euro a cranio per le degustazione e 24 per acqua, vino e caffè. Un esborso di 114 euro. All’uscita chiedo a mia moglie dove vogliamo andare a mangiare un piatto di spaghetti.
Alvaro Coli