IL RACCONTO DI ILARIA DI RITORNO DALL’ALBANIA
Una goccia nell’oceano
Pubblichiamo la riflessione di Ilaria Ghiselli del Gruppo Scout Fano I° al suo rientro dall’esperienza missionaria fatta in Albania dal 3 al 9 agosto con le scolte.
“Quello che noi facciamo non è
Che una goccia nell’oceano,
ma se non lo facessimo,
l’oceano avrebbe una goccia in meno”
Madre Teresa di Calcutta
Quando siamo partite alla volta di Bardhaj, nell’estremo nord dell’Albania, lunedì 3 Agosto, io credo che nessuna di noi si aspettasse ciò che abbiamo trovato. Siamo partite senza sapere bene a cosa stessimo andando incontro, con quel tanto di entusiasmo che basta a farti prendere una nave per una terra sconosciuta e che fa pensare alla povertà, ai barconi stipati di gente disperata e a una non meglio definita storia di violenza alle spalle. Così, siamo partite: con la rotta inversa a quella che per tante persone significa promessa di felicità. Non ricordo cosa mi aspettassi di trovare prima della partenza, ma ricordo una carissima amica dirmi: “Non riesco ad immaginare un giorno di sole in Albania”. Credo che questo esprima alla perfezione l’idea di Albania che forse ogni italiano ha – anche per via della disinformazione che dalle nostre parti dilaga e che rappresenta un pericolo subdolo, insidioso, perché porta a un ingiustificato pregiudizio che inevitabilmente si trasforma in paura, e la paura spesso fa fare cose terribili alle persone. Per un italiano medio non esiste sole in Albania, semplicemente perché non la conosce e l’indistinta, nebbiosa idea che si ha corrisponde a quel poco che abbiamo sentito dire o peggio, non abbiamo sentito dire. Siamo partite con in testa un Paese senza sole.
Eppure è stato il sole che abbiamo trovato.
Non capita tutti i giorni di incontrare una donna straordinaria, una che ha davvero fatto della sua vita un’opera d’arte, che ha avuto il coraggio di lasciare tutto e partire, con la sola garanzia della propria incrollabile fede e l’umiltà di mettere se stessa nelle mani di Dio, per servire gli ultimi, per andare là dove, se non ci fosse stata lei, non ci sarebbe stato nessuno. Suor Teresa, fondatrice, assieme ad altre sorelle, della missione di Bardhaj, è una che ha fatto della frase “Non importa quanto si dà, ma quanto amore si mette nel dare”, titolo della nostra route, il proprio motto e la guida del proprio cammino di vita. Cammino che ha addosso l’odore dei poveri di Bardhaj, un odore intenso, penetrante, di panni logori, di vita dura nei campi, di acqua sporca come minestra per cena e quattro stanze per quattro famiglie. Cammino che sa di amaro e che chiude la gola, quando ti ritrovi di fronte all’ingiustizia, a donne trattate come schiave nella loro stessa casa, donne ventenni come Violetta, che ha portato in grembo già due figli e ha occhi profondi, malinconici, sempre un po’ lucidi; quando ti fermi di fronte alla tomba di Aferdita, nel piccolo cimitero di Bardhaj, che, bambina, è stata uccisa da un’appendicite perché la sua mamma non aveva soldi per pagarle le cure; quando guardi i piedi dei bambini e ti accorgi che quel paio di ciabatte sporche e tutte rotte è forse l’unico paio di scarpe che possiedono. E ti chiedi dov’è Dio in tutto questo, e senti la voce sempre giovane di Suor Teresa rispondere, semplicemente: “Ma Dio è proprio lì. In quei poveri e nelle loro case. E se Dio è là, come faccio io a non abbracciarli?”. Nonostante l’odore. Nonostante tutto. Nonostante.
Vivere una vita per gli altri è l’unico modo che può davvero renderti felice; forse nessuno di noi si renderà mai conto di quanto siano vere queste parole finché non incontrerà per la propria strada persone come Suor Teresa, che ha ancora – nonostante sia prossima all’ottantina – l’energia e lo spirito di una ragazza, e un viso bello, pulito, sereno; nessuno se ne renderà conto finché non pregherà Suor Francesca di sedersi, per l’amor del Cielo, perché il servizio le è entrato così tanto nel cuore da non riuscire a stare ferma un attimo e a dedicarsi a se stessa, da star bene solo servendo qualcun altro. Angeli di passaggio, come tutti gli altri eroi veri, quelli che operano nel silenzio perché il clamore fa male all’umiltà.
Finché non guarderai negli occhi dei bambini… i bambini che ora hanno un nome e un volto, non sono più i “bambini poveri” usati come spauracchio dai genitori italiani per convincere i propri figli viziati e capricciosi a mangiare. Nominati così, con leggerezza, e invece eccoli là, che aspettano oltre il mare, e hanno fame, fame di pane e d’amore.
Sèbastian, che arriva correndo all’asilo, prima di tutti gli altri, come un messaggero del mattino, per poi rinchiudersi in un ostinatissimo silenzio e richiedere tutta la nostra energia per scavalcare quel muro di diffidenza e imbarazzo che ha eretto attorno a sé. Ribattezzato “Sèbastian-contrario”, si è poi rivelato scatenato, come si poteva intuire.
Emanuèl, il ‘boss’ indiscusso della situazione, con lo sguardo strafottente e la cresta perfetta; Daniela, un uragano di bambina, le gambe sottilissime e un sorriso furbo stampato in viso, che ti travolge con discorsi che, dall’espressione della sua faccia, sembrano di vitale importanza… ma di cui naturalmente non capisci una parola, e ti limiti a dire “po” (sì), e a sorridere, perché a una così puoi solo sorridere; e poi Attilio, una massa di capelli castani e due occhi vispi, nerissimi, in un viso da malandrino patentato; Gabriela, capelli biondi e occhi blu: se la dolcezza dovesse avere un volto, sarebbe il suo; Marishilda, con la sua incontenibile energia, che ride sempre, e Fatmira, dagli occhi tristi e l’espressione malinconica e distante; le sorelle Sara e Stela, che arrivano vestite uguali e si conquistano subito l’amore di tutte; Giovana, grazia, gentilezza, che sembra uscita da un libro di fiabe; e poi Clev, piccolo e biondissimo, che non parla e non sorride mai nelle foto: abbiamo poi visto la sua casa; e abbiamo capito. Francesca, due dentoni un po’ sporgenti e una fonte inesauribile di energia; suo fratello Joseph, sei dita in un piede, orecchie a sventola e il sogno di fare il musicista. E poi ancora Andreja, che farà il calciatore e giocherà in nazionale, le sorelle Xhemi e Xhaila, Marisole – in Albania non è concesso avere due nomi all’anagrafe –, Mario e Marina, Aisa, Flavia e Marina, Aleksandra, la principessa triste, i fratelli Elvise ed Elvine, diversi come il giorno e la notte, Enrico, Ronaldo, Santo e Valerio “della tribù dei piedi neri”, Florence, Desorta, Daniele, occhi blu, profondi, e una storia di agghiacciante violenza alle spalle, Giovana e la sorellina Megghi, Marixhian, poco meno di un anno, dai capelli rosso fiamma, e tanti altri.
Così simili eppure diversi dai nostri bambini. C’era un’unica altalena in giardino, e loro erano una quarantina. Credete che abbiano litigato? La regola era: dieci secondi per uno, poi cambio. Nemmeno uno si è mai lamentato. È scontato dire che non hanno mai fatto storie per mangiare, e come fossero raggianti di arrivare a scuola, un piccolo angolo di paradiso ritagliato in mezzo a tanta desolazione e povertà. Tutti, tutti i nostri bambini – e anche i grandi – dovrebbero poterli vedere. Vivaci come sanno esserlo soltanto i piccoli; scatenati, curiosi, meravigliati, pieni di vita; e gentili, generosi, responsabili, spesso molto più grandi della loro età, costretti a crescere in fretta e ad imparare presto a prendersi cura gli uni degli altri. I fratelli non litigano, in Albania. Almeno da bambini. Poi spesso le faide familiari, ancora tragicamente presenti in zone selvagge come Bardhaj, distruggono intere famiglie, e a farne le spese sono sempre i più deboli, gli innocenti e gli indifesi. Abbiamo visto bambini, come Daniele, che hanno perso entrambi i genitori per assurde vendette e ne portano il peso e le ferite. Abbiamo visto tombe senza nome, riconoscibili soltanto da un recinto di sassi e una croce di vecchio legno, tutta storta, così piccole come possono essere solo i corpi dei bambini. Vittime, sia che siano stati loro ad andarsene, sia che siano rimasti, della violenza degli adulti, e della loro pazzia.
È un Paese strano, l’Albania: un Paese con le sue luci e le sue ombre, che puoi contestare subito o amare per sempre, ma che in nessun caso ti lascia indifferente: semplicemente ti scava una voragine dentro, ti apre gli occhi e dice: “Guardami, non puoi ignorarmi, non ora che mi hai visto, portami con te in Italia, parla di me, fa’ sapere a tutti cosa accade qui, ricordati di me.”
È un Paese che ha sofferto sotto una terribile dittatura, poi sconvolto dalla guerra civile di cui nessuno sa nulla, un Paese rimasto isolato e di cui a nessuno sembra importare, perché non fa notizia; è un popolo fiero, quello albanese, che lentamente, faticosamente, inizia ora a rimettere insieme i propri pezzi e a tentare di risollevarsi. Non possiamo continuare a chiudere le orecchie di fronte al grido d’aiuto, solo perché siamo nat ‘dalla parte giusta dell’Adriatico’.
Madre Teresa, tema centrale della nostra route, insegna. Suor Teresa insegna. Il loro essersi fatte strumento nelle mani di Dio ha dato a queste donne, entrambe piccole, entrambe umili, una forza fuori dal comune, sono diventate un’arma formidabile nelle Sue mani, come Suor Teresa ama ripetere.
Vorrei soltanto ringraziare chiunque ci abbia permesso di vivere quest’esperienza, che ricorderò sempre come una delle più belle del cammino scout e della mia vita. Ringrazio chi ci ha accolto, chi ci ha donato un sorriso, chi ha condiviso con noi la propria sofferenza raccontandoci storie di vita, chi con coraggio e in silenzio vive ogni giorno per portare la speranza.
Vive per portare un raggio di sole nel cielo di Bardhaj.
Perché il sole laggiù c’è, ed è meraviglioso. Falënderim. Grazie.
Ilaria Ghiselli – Fuoco Panda Gruppo scout Fano1 FSE